sabato 30 maggio 2015

Libero 28.5.15
«Quaderni neri manipolati. Ora fermo la pubblicazione»
Von Herrmann, coordinatore dell’opera omnia del grande filosofo tedesco, attacca il curatore Trawny: «La sua è un’operazione di marketing falsa e diffamatoria»
di Claudia Gualdana


I Quaderni neri di Martin Heidegger non sono «neri». Non è una provocazione. Ed Heidegger non era antisemita, con buona pace di una certa categoria di studiosi che sul suo presunto antisemitismo ha costruito carriere universitarie e successi editoriali. 
Ma procediamo con ordine. In alcuni Paesi europei, Italia compresa, di recente è stata pubblicata una minima parte degli appunti di Heidegger per denigrare la sua filosofia degradandola a livello ideologico e politico. Il capofila di quella che parrebbe una campagna diffamatoria contro il filosofo scomparso nel 1976 è Peter Trawny, curatore di Riflessioni, uscito in Germania nel 2014, in cui si trovano i tredici passaggi incriminati, in cui il pensatore scrive di ebraismo. «Questi passaggi, che occupano appena due pagine e mezzo in confronto alle 1.250 dei tre volumi delle Riflessioni, hanno fornito lo spunto al curatore di questi volumi per squalificare, in quanto “sistematicamente antisemita”, l'intero pensiero. Lo scandalo non sono i 13 passaggi in questione, ma il modo di rapportarsi a essi: falsificante, diffamatorio, profondamente falso».
A mettere una pietra tombale su una querelle durata anche troppo a lungo è Friedrich- Wilhelm von Herrmann. Unico discepolo vivente di Heidegger, abituato da anni a negarsi alla stampa, fa un’eccezione per Libero. Ottantaquattrenne, assistente privato di Heidegger negli ultimi quattro anni di vita, è il coordinatore dell’edizione completa delle sue opere designato per iscritto dal grande filosofo in persona. In breve, è l’unica autorità mondiale nella tutela e nell’interpretazione del pensiero del suo maestro: le sue parole pesano davvero come pietre. Il professore di Friburgo rompe il silenzio grazie all’intercessione di Francesco Alfieri, docente all’Università Lateranense di Roma, che di comune accordo con von Herrmann ci affida la pubblicazione di alcune sue riflessioni inedite. Von Herrmann inoltre ha inviato a chi scrive una lettera privata chiarificatrice, da cui emerge finalmente la verità: la faccenda dei Quaderni neri è una montatura.
Per l’esattezza, spiega, sono detti «quaderni rilegati con tela cerata nera», ma Heidegger li chiamava semplicemente «libri degli appunti». Teneva carta e penna sul comodino, per annotare di getto i pensieri che gli balenavano in mente nelle notti insonni. La mattina dopo trascriveva tutto nel libro degli appunti. Essi, scrive von Herrmann nella lettera, nell’impianto concettuale di Heidegger hanno una funzione di completamento di quanto delineato nei grandi trattati, a partire da Essere e tempo. Il filosofo nel suo testamento aveva previsto che uscissero dopo le opere fondamentali perché senza averle lette sarebbero risultati incomprensibili. «I Quaderni vanno intesi come il luogo che accoglie i frammenti e le unità di pensiero che di tanto in tanto gli si presentavano alla mente. In essi Heidegger ha però anche annotato molti pensieri, opinioni e giudizi privati e personali su eventi e persone contemporanee. Anche se sono redatti nel linguaggio del pensiero storico dell’Essere, non appartengono al pensiero puro, sistematicamente ordinato di Heidegger».
Insomma, una parte infinitesimale dell’opera heideggeriana è stata manipolata per inficiare il suo sistema di pensiero. Von Herrmann smaschera un’operazione di marketing editoriale forse lucrosa, ma intellettualmente disonesta. Rammenta che chi conosce davvero l’opera di Heidegger sa che le sue riflessioni sull’ebraismo «mondiale» o «internazionale» fanno parte di una critica al presente, che è poi lo spirito moderno, e in esse non c’è nulla di razzista. 
Ribadiamo di nuovo il punto fondamentale: i concetti storico-ontologici non sono antisemiti in quanto tali. Ma c’è di più: Trawny non era stato incaricato da von Herrmann di «curare» le opere inedite di Heidegger, ma solo di seguirne la pubblicazione. Quindi ha commesso un illecito contro la sua opera, proprio come ha fatto chi ne ha imitato l’esempio in altri Paesi. A queste spericolate operazioni editoriali ne seguiranno altre, stavolta serie. In una lettera del 22 maggio a Francesco Alfieri, von Herrmann fissa le tappe della pubblicazione dei Quaderni neri: «I primi quattro volumi dei nove previsti sono stati editati nel 2014, ne mancano altri cinque. Saranno pubblicati dopo l’uscita di tutti gli altri volumi dell’edizione completa su Heidegger. Così si intende rispettare, almeno per quel che è ancora possibile, la volontà dello stesso Martin Heidegger». Definendo con simpatia il nostro quotidiano «naturalmente libero», von Herrmann ci concede così un’anticipazione internazionale. I manipolatori in cerca di gloria saranno spazzati via. Giova rimarcare la scarsa considerazione in cui il mondo accademico più serio tiene libri buoni solo per fare clamore mediatico. Riflessioni di Trawny «non offre alcuna interpretazione veridica e autentica. La sua non è una visione ermeneutica seriamente discutibile, ma una semplice affermazione non supportata da prove». Più chiaro di così non potrebbe essere: von Herrmann chiude una polemica ridicola, che dice soprattutto quanto male stia facendo alla verità la proficua consuetudine di mettere tutto, persino il genio, sul piano ideologico. Strappa il pensiero alle strumentalizzazioni politiche per restituirlo alla dimensione teoretica.
Repubblica 30.5.15
Alfredo Reichlin il “c’eravamo tanto amati” della politica
L’autobiografia dell’ex dirigente del Pci è un viaggio in un’Italia perduta. Che nella lotta aspirava anche a un’idea di bellezza
Quei luoghi raccontano il Paese di allora dalla sala di Botteghe oscure alle osterie
di Eugenio Scalfari


IL LIBRO di Alfredo Reichlin che va in questi giorni nelle librerie (editore Donzelli, euro 18,00) si intitola La mia Italia e ha come sottotitolo La Repubblica, la sinistra, la bellezza della politica . È un sottotitolo che incuriosisce; la bellezza della politica in questi tempi agitati e oscuri con una democrazia fragile e prigioniera della corruzione, ha più l’aria d’una chimera che d’una tangibile realtà. Ma la lettura di queste pagine ci fa capire in quale senso l’autore usa quella parola: è lui che sente quella bellezza, è la sua vita che è stata dedicata a ripristinarla e più la vedeva deturpata e quasi inguardabile per come era ridotta, più cresceva in lui il desiderio, il bisogno e addirittura il dovere di lottare per ricostruirne i lineamenti perché fin dai tempi di Aristotele la politica fu vista come la più alta attività dello spirito, la “polis”, la dedizione al bene comune.
Questa è stata la principale attività di Alfredo Reichlin e non soltanto la sua ma di quanti hanno come lui sentito quel bisogno, quell’urgenza, quel dovere. Questo è stato anche il suo lascito ai figli e a chi con lui ha vissuto e vive. L’autore del resto lo evoca con parole chiare nella breve introduzione preposta al libro: «La potenza dell’economia ha sovrastato il potere della politica ed è su questo sfondo che c’è il rischio di rendere anacronistica la sinistra tradizionale. Ed è sul bisogno di un “punto e a capo” che l’autore cerca la sua Italia».
I capitoli che seguono questa introduzione sono appunto la storia d’una vita. Alfredo compie i suoi novant’anni proprio in coincidenza all’uscita di questo libro. Una vita di lotte, di qualche vittoria, di molte sconfitte, ma insieme un festeggiamento cui il racconto dà un significato.
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Il primo capitolo ripete il titolo del libro e comincia con questa frase: «Ho fatto in tempo a vedere l’Italia del fascismo ».
Siamo ormai in pochi ad aver visto l’Italia del fascismo e ciascuno l’ha vissuta da diverse angolazioni. Io ricordo ancora le canzoni del Guf: «Siamo fiaccole di vita, siamo l’eterna gioventù/ che conquista l’avvenire/ dove Roma già marciò/. Ma intanto leggevamo le poesie di Ungaretti e la Recherche di Proust. Alfredo leggeva Montale e Rilke e quello era il contravveleno alla dittatura del Duce.
Ma il vero contravveleno fu l’8 settembre del 1943, quando lo Stato si sfasciò, l’esercito si dissolse, l’antifascismo diventò resistenza e quella prese la R maiuscola e diventò guerra partigiana. Ci furono partigiani d’ogni colore politico e alcuni di nessun colore salvo il sentimento di antifascismo che era presente in tutti: comunisti, liberali, azionisti, repubblicani, monarchici. E l’appoggio, silenzioso ma costante, di gran parte della popolazione che dava ai partigiani nascondiglio, cibo e ogni sorta di aiuto possibile quando la notte scendevano dalle montagne a valle o nelle strade delle grandi città avvertendoli delle retate in corso nei quartieri.
Reichlin, dopo aver vinto qualche esitazione (proveniva da una famiglia di buona borghesia) decise di iscriversi al Partito comunista e con altri compagni chiese di entrare a far parte dei gruppi combattenti in città: attentati, diffusioni di stampa clandestina e insomma guerra in città perché le montagne intorno a Roma non c’erano.
La guerra in città era ancor più pericolosa. Si rischiava d’esser presi sul fatto e fucilati immediatamente e senza processo, come ordinava l’editto emesso dal generale Graziani, comandante delle forze militari della repubblica di Salò.
L’autore racconta con lucida memoria e scrittura avvincente perché sembra un diario scritto in concomitanza con i fatti, l’attentato che alcuni suoi compagni dei Gap fecero in via Rasella e le conseguenze che ne derivarono. I tedeschi avevano nelle mani molti antifascisti, tra i quali Luigi Pintor, recluso nella prigione di via Tasso. I nazisti stabilirono una sorta di decimazione tra gli ostaggi: dieci da giustiziare per ogni soldato tedesco ucciso a via Rasella e Pintor fu tra quelli. Alcuni furono giustiziati subito, per altri tra i quali anche Pintor sarebbero stati giustiziati più tardi, alle Fosse Ardeatine. Per fortuna fu lasciato lì quando il fronte fu sfondato e i carri armati americani entrarono a Roma nel giugno del ‘44.
Quel racconto è avvincente specie per chi — come me e lui — era in piazza Venezia ad applaudire gli americani. Non ci conoscevano noi due, ma oggi ricordiamo come l’avessimo davanti agli occhi quella giornata di libertà.
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Molti altri capitoli del libro testimoniano la vita politica dell’autore e quella del Paese. Visto da sinistra. Ci sono molti personaggi che hanno avuto un ruolo decisivo: Togliatti, Ingrao, Amendola, Berlinguer, Napolitano, ma anche Aldo Moro e Claudio Napoleoni. Alcuni visti in piena luce, altri di scorcio, ma tutti raccontati nei luoghi che Alfredo frequentava con loro, la sala della direzione a Botteghe Oscure, lo studio del segretario del partito, un’osteria in quei pressi dove lui spesso pranzava con Togliatti, un ristorante dove incontrava Cesare Garboli o Ettore Scola, il regista d’eccellenza, amico di Fellini. Insomma la politica e la cultura, che Alfredo ha sempre considerate insieme proprio perché è la cultura che dà bellezza alla politica che a sua volta le dà una concretezza necessaria per non trasformarla in utopia e tantomeno in ideologia. Reichlin non è mai stato un ideologo. Del resto nessuno della classe dirigente del Pci ha ideologizzato le proprie idee e i valori che le sostenevano. Se così non fosse stato la scissione con Mosca avvenuta nei primi anni Ottanta non sarebbe accaduta e l’incontro tra Aldo Moro e Berlinguer non sarebbe mai potuto avvenire.
Leggete il capitolo intitolato C’eravamo tanto amati e ne sarete deliziati. «La cosa che più mi colpisce di quel film — scrive l’autore — è quella sottile e struggente aria del tempo, quella forza di evocare qualcosa che va al di là della vicenda dei singoli personaggi. Che cosa ci aveva segnato così profondamente? Un Paese distrutto, tradito, affamato, attraversato da eserciti stranieri, ma finalmente libero, che tornava nelle mani del suo popolo vero. E quella straordinaria felicità consisteva esattamente in ciò: nel sentirsi liberi. Tutto diventava possibile, si erano riaperte — sia pure coperte di macerie — le strade dell’avvenire e noi volevamo percorrerle insieme ».
Non è andata così, non solo per i comunisti, non solo per la sinistra, ma per il popolo che lo abita, lo vive e ne determina il destino. Quel popolo cui apparteniamo non è evidentemente in grado di seguirle quelle vie dell’avvenire. Delega il compito a chi è capace di incantarlo e questa è la vera debolezza nostra, di farci incantare, di delegare il potere a chi del potere fa professione.
Il pensiero lungo di Berlinguer è un altro capitolo del libro ed anche qui cito una frase assai significativa: «Nella nostra storia gli avventurieri occupano il primo posto in scena, giocando al sovversivismo e riducendo la democrazia all’uomo solo al comando». Questo purtroppo è il Paese; Guicciardini l’aveva scoperto nel Cinquecento e non è granché cambiato.
Reichlin ne è consapevole ma coltiva una speranza: bisogna ricostruire la politica dall’avvilimento in cui è caduta. «Non come professione né come mito e orizzonte inimmaginabile, ma come consapevolezza della propria vita».
Non sono molti nel nostro Paese e neppure nel resto del mondo che desiderino di conquistare questa consapevolezza. Il libro di Reichlin mira a quest’obiettivo e merita d’esser letto come fonte di insegnamento, ma temo che pochi desiderino di diventare consapevoli. È una fatica darsi carico dell’interesse generale. “C’eravamo tanto amati” è vero, ma “c’eravamo poi lasciati/ non ricordo come fu». La canzone è molto dolce ma anche triste. Divenire consapevoli non piace. Quello della canzone era nato poeta, ma morì notaio. Questa, purtroppo, è la vita.
IL LIBRO La mia Italia di Alfredo Reichlin (Donzelli pagg. X-150 euro 18)
Repubblica 30.5.15
La Biblioteca di Babele? Borges sbagliava i calcoli
Più orribile di un carcere e quasi del tutto impossibile da realizzare in architettura. Ecco come sarebbe il paradiso dei libri immaginato dal grande autore argentino
di Michele Mari


«L’UNIVERSO (che altri chiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo...». Incomincia così La biblioteca di Babele , sicuramente uno dei racconti cui più Borges ha legato il proprio mito.
Pubblicato nel 1941, e dal 1944 nella raccolta Finzioni, il racconto ha imposto al mondo (secondo la logica demiurgica dell’autore, per cui nominare è creare) l’idea di una interminabile biblioteca modulare, che sviluppandosi attorno a se stessa come un mostruoso alveare contenga un numero di libri talmente alto da esaurire tutte, ma proprio tutte, le possibili combinazioni linguistiche dell’alfabeto. Libri, dunque, che con una risibile quota di eccezioni conterranno testi totalmente o parzialmente insensati (o sensabili secondo lingue dimenticate o ancora da inventare), a gloria del caso. E naturalmente, grazie alla suggestione di altri racconti memorabili, questa biblioteca è anche un labirinto e un carcere, se non direttamente l’inferno.
Sempre Borges ha affermato che ogni artista crea i propri precursori, retroattivamente orientandoli e consentendo di cogliervi il presagio del futuro: in questo senso La biblioteca di Babele non è che il punto di arrivo di una tradizione che comprende la Bibbia, Dante, Pascal, Athanasius Kircher, Swedenborg, Beckford, Piranesi, Lovecraft, Kafka; nessuno, però, aveva fatto della biblioteca una così potente metafora dell’universo, e in effetti chi dopo Borges è tornato sul tema, come Calvino o Eco, si è potuto permettere solo lievi variazioni formali. Borges, non c’è dubbio, questa biblioteca la ha “vista”, esattamente come Dante vide l’inferno. Ma vedere (o intuire) una realtà non significa sapere come essa è costruita; tantomeno significa progettarla. Su questa strada l’immenso argentino ha avuto il buon senso di non mettersi nemmeno, limitandosi a fornire pochi e vaghi cenni sulla modularità esagonale della struttura; e se una variante nella seconda edizione dimostra che la questione non gli era indifferente, è anche vero che la rettifica (due lati liberi per esagono anziché uno solo) non fa uscire il testo dalla sua imprecisione: nel primo caso se ne deduce uno sviluppo architettonico tutto in verticale (la biblioteca come torre di Babele, appunto), nel secondo uno sviluppo lineare (la biblioteca come muraglia cinese: a meno che chiudendosi in un immenso cerchio la muraglia non definisca se non le fondamenta, di nuovo, di una torre di ben altro diametro...).
Immaginiamo ora che un ristretto manipolo di uomini, angosciati dall’imprecisione (o quantomeno dalla reticenza) del racconto di Borges, decidano di verificarlo, per stabilire se, partendo dal testo, la costruzione di quella biblioteca sia effettivamente possibile. Scrupolosi e pazienti come i cartografi di un altro celeberrimo racconto di Borges, dove si narra della mappa di un impero in scala 1: 1, e animati da un sacro fuoco gnoseologico, questi uomini soppeseranno ogni parola del testo, la rapporteranno ai sistemi di Euclide, di Newton, di Einstein, esamineranno ogni passo dal punto di vista matematico, geometrico, algoritmico e, finalmente, architettonico. I loro disegni saranno sempre più precisi e complessi, le loro simulazioni tridimensionali sempre più cogenti: e poiché oltre ad essere dei sognatori rimarranno degli uomini pratici, si sforzeranno di far tornare i conti non solo per le celle esagonali, ma anche per le scale di servizio, i pozzi di aerazione, i corridoi, e perfino i gabinetti. In quest’ottica totalizzante anche la collocazione di una plafoniera può compromettere l’insieme, dunque, come nel paradosso di Achille e della tartaruga, più ci si avvicinerà alla soluzione più i problemi tecnici aumenteranno. È evidente che siamo dentro un racconto o un sogno di Borges, e che questi uomini esistono solo nella sua pagina.
E invece ci capita fra le mani un libro, un libro che esiste e, soprattutto, che vede la luce quasi trent’anni dopo anni dopo la morte di Borges. Si intitola Come costruire la Biblioteca di Babele a dispetto degli errori di Borges ( Medusa edizioni, pagg. 118, euro 14); lo ha scritto Rego nato Giovannoli, e Stefano Bartezzaghi vi ha firmato una premessa. Con un piglio che ai più devoti potrà sembrare blasfemo, Giovannoli definisce “difettoso” il racconto di Borges, e per dimostrarlo convoca quanti prima di lui ne hanno denunciato le incongruenze e proposto (peraltro con esiti ogni volta diversi) rettifiche architettoniche: le sue citazioni sono puntuali e perentorie, ma ancora una volta il demone borgesiano ci sussurra che questi nomi di architetti e di matematici (Cristina Grau, Carlo Casolo, William Bloch, Mauro Boffardi, Alex Warren e altri) potrebbero stare a Giovannoli proprio come un teolo- gesuita o Franz Kafka stava a Borges: siano cioè funzioni del racconto, e dunque finzioni. Ma resistiamo alla tentazione, e seguiamo le argomentazioni di Giovannoli. Se l’assunto, come mi sembra di capire, è che la biblioteca borgesiana sia “impossibile”, perché cercare di renderla tecnicamente possibile? Cornelius Escher ha disegnato cascate che si autoalimentano e scale discendenti che risalgono sopra se stesse, ma se queste figure “funzionano” è solo per virtuosismo illusionistico. Non è questa l’operazione di Giovannoli, animato piuttosto da uno zelo veritativo.
Ma come gli scienziati faustiani di tanta letteratura fantastica, egli stesso arretra sgomento di fronte alla propria scoperta: subito dopo aver annunciato che l’annoso problema “è infine risolto” e aver fornito le necessarie coordinate architettoniche, conclude infatti: «c’è da augurarsi che la Biblioteca non venga mai costruita. Più orribile di un carcere, sia pure inciso da Piranesi, più angosciante di un incubo, sia pure con le forme distorte delle architetture di Lovecraft, la Biblioteca di Babele è un’immagine adeguata non dell’universo ma dell’Inferno».
IL LIBRO Come costruire la Biblioteca di Babele di Renato Giovannoli ( Medusa)
Corriere 30.5.15
Tutte le Palmira del mondo (e Cesare Brandi aveva già capito)
di Carlo Vulpio


Il rischio è che potremmo non vedere più non soltanto Palmira, che è in Siria, ma anche Leptis Magna, Sabratha e Ghirza, che sono in Libia, oppure Baalbek, che è in Libano, o Amman-Gerasc e Petra, in Giordania.
Se il fanatismo jihadista e la barbarie del Califfato nero dell’Isis non verranno fermati, tutto un mondo sparirà e di esso, biblicamente, non rimarrà pietra su pietra.
In tal caso, dovremo accontentarci di «vedere» questi luoghi meravigliosi soltanto attraverso gli scritti di chi li ha raccontati meglio di tutti, e cioè Cesare Brandi — storico dell’arte, critico, scrittore, giornalista — autore del bellissimo e attualissimo, oltre che profetico, Città del deserto , pubblicato nel 1958 e riproposto oggi da Elliot edizioni (178 pagine, € 17,50, con una prefazione di Geno Pampaloni del 1990).
Sarebbe un peccato se questa stolta furia iconoclasta prevalesse, ma se dovesse andare a finire così, ecco una ragione in più per leggere (o rileggere, ancora meglio) questo libro di Brandi, che non solo emoziona, non solo descrive — e con quale finezza — ma spiega anche il perché, già allora, questo patrimonio dell’umanità era in pericolo, e perché oggi quel pericolo è diventato, direbbero i giuristi, «concreto e attuale».
È ingiusto affidare a una frase un intero ragionamento — fra l’altro basato su raffinate riflessioni storiche e filosofiche e su brillanti osservazioni urbanistiche, architettoniche e artistiche — ma la considerazione finale di Cesare Brandi, non sospettabile di anti-islamismo di maniera, come dimostrano le pagine sulla questione israelo-palestinese, è di quelle a cui non ci si può sottrarre. «L’Islam — scrive Brandi — non può esistere nel nostro mondo se non assorbendolo o distruggendolo: nulla ha da sostituire, nulla ha da imprestare se non una forma arcaica della sacralità».
Se questo è vero, non c’è da farsi illusioni che, per esempio, la libica Leptis Magna, «una cannonata anche per chi viene da Roma o da Ostia», «il primo capolavoro della scultura romana», «città lunga tre chilometri, con strade e fognature perfette», «esempio di virtuosismo urbanistico sopraffino e di grande architettura», possa fare una fine diversa da Palmira, le cui tombe costruite in altezza, a quattro o cinque piani, scrive Brandi, ne hanno fatto un caso unico nell’antichità, «la prima città con impresari di pompe funebri e speculatori che compravano in blocco e vendevano a strozzo i loculi». E come Palmira e Leptis Magna, città emporio in mezzo al deserto e tuttavia ricchissime, corrono lo stesso rischio anche Sabratha, che ha una basilica giustinianea il cui mosaico pavimentale «è la più bella opera d’arte superstite della Tripolitania», e tutti gli altri luoghi in cui Brandi davvero riesce a portare per mano il lettore, conquistandolo con le sue similitudini: «Amman come e peggio dei Sassi di Matera» (ovviamente i Sassi di sessant’anni fa) o le case di Gerico e Damasco come i trulli di Martina Franca, la città vecchia di Gerusalemme come quella di Bari intorno alla Basilica di San Nicola, oppure Betlemme con le strade curve come in Calabria e i mosaici simili a quelli di Cefalù. Mondi e civiltà che hanno attraversato il tempo.
«Ma i barbari — avverte Brandi — sono di tutti i tempi». Ricordiamocelo .
La Stampa 30.5.15
Flirt, virtù e debolezze
La vita “normale” di Allende
La nipote del presidente cileno racconta per la prima volta in un film premiato a Cannes com’era stare accanto all’uomo considerato un mito
di Filippo Fiorini


Sono certamente più di venti, ma non esiste un dato certo sul numero di film che raccontano il golpe in Cile del 1973. Nonostante i molti precedenti, però, il cortometraggio «Allende, mio nonno Allende» ha appena vinto il premio come miglior documentario a Cannes, conquistando la giuria attraverso il racconto del lato più umano del presidente socialista spodestato dal generale Augusto Pinochet. Per farlo, Marcia Tambutti Allende, regista e nipote del protagonista, ha cercato soprattutto tra i membri della sua famiglia, trovando in loro una straordinaria resistenza a parlare, ma anche episodi di vita vissuta rimasti segreti per anni.
Le scoperte
«Oggi ho visto una cosa sensazionale: una foto del nonno in spiaggia», afferma in una scena. «E perché sarebbe così sensazionale?», le risponde la nonna Hortensia Bussi, vedova del presidente. «Perché non l’avevo mai visto in costume». Se tutti i cileni conoscono a memoria le fattezze della statua di Plaza Constitucion a Santiago, così come la frase con cui Allende si congedò dal Paese prima di suicidarsi nel palazzo presidenziale assediato («Non temete, presto torneranno ad aprirsi i grandi viali per cui cammina l’uomo libero»), pochi hanno avuto accesso alla sua sfera più intima.
Mentre i militari distruggevano foto, lettere e registrazioni, la sinistra mondiale creava il mito sulla base della figura pubblica: mezzo busto in giacca e cravatta, braccio alzato e quintali di libri sull’eredità ideologica. Sotto a tutto questo restavano gli interrogativi su una vita straordinaria divisa tra eroismo e banalità: come vivevano in casa la sua relazione con la segretaria e amante, Miria Conteras? «Adorava flirtare», dice la moglie.
Che fine ha fatto l’atto d’indipendenza del Cile dalla Spagna? Datato 1818, probabilmente sequestrato alla Contreras il giorno del golpe e distrutto da un soldato. Per fare luce tra i ricordi, ci voleva per forza un Allende. Isabel, per esempio, omonima di sua cugina, la scrittrice, parlamentare e segretario del Partito Socialista come fu suo padre, non ne ha mai voluto parlare. Nel documentario, la si vede camminare cocciuta in giardino, mentre la figlia Marcia la insegue incalzando con le domande.
Secondo Mirta, un’altra nipote, «tutto questo tabù è dovuto al loro dolore». La fine del sogno rivoluzionario, la morte del capofamiglia, l’esilio, la lotta armata degli Anni Settanta, le persecuzioni con cui il regime uccise più di 3 mila persone e la passione delle masse, fanno parte di un trauma che alcuni degli Allende hanno risolto in modo radicale. Beatriz si è suicidata a Cuba nel ’77. Suo figlio Alejandro, che ricorda il nonno nei manifesti elettorali appesi in casa, vive in Nuova Zelanda.
L’«altra» famiglia
Anche i Pinochet sono una dinastia cresciuta all’ombra di una figura ingombrante.
La maggior parte di loro evita le apparizioni pubbliche, nonostante esista tra i cileni una solida minoranza di nostalgici. L’unico che prende sistematicamente posizione è Augusto Pinochet Molina. Si chiamava Cristian, ma l’hanno ribattezzato come il dittatore quando aveva 5 anni. Una volta, disse che il suo maggior rimpianto era che «il nonno non avesse avuto più tempo da passare con lui». Ha creato il movimento d’estrema destra «Por Mi Patria», parla di patria, ordine e disciplina. Mercoledì è stato arrestato con un grammo e mezzo di cocaina in tasca.
Corriere 30.5.15
1915: l’opinione pubblica e Giolitti
di Lucio Villari


Rispondendo a un lettore che chiedeva se la dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria inviata per telegramma a Vienna il 23 maggio 1915 non fosse stato un atto antiparlamentare, antidemocratico se non addirittura anticostituzionale ( Corriere , 16 maggio), Sergio Romano ha ricordato l’opposizione di Giolitti e dei parlamentari (circa 300) che si opponevano alla guerra, e che la sua insistenza anche in colloqui con il re per impedire la guerra fu resa inutile perché gli fu fatto notare che (a parte il rischio dell’abdicazione del sovrano) la sconfessione dell’operato interventista del governo Salandra avrebbe «aperto una crisi costituzionale». Non so se questa crisi ci sarebbe stata. In verità Giolitti fu in quei giorni minacciato di morte e il governo sapeva che era pronto un attentato contro di lui. La polizia lo costrinse a tornarsene a Torino mentre Montecitorio fu assaltato da bande di facinorosi interventisti che ne devastarono stanze,arredi, ecc. La maggioranza assoluta della Camera era dunque contro la guerra e lo era anche , come Romano stesso scrive al lettore, «la maggior parte degli italiani». Non si trattava però di una «maggioranza silenziosa» perché la protesta contro la guerra dilagava in quei mesi in tutta Italia con incidenti, morti, feriti, arrestati. Le guerre precedenti dell’Italia (dal 1866, alle guerre coloniali, alla guerra italo-turca) erano avvenute con il consenso del Parlamento. Sarebbe interessante affrontare con maggior precisione questo punto delicato della nostra storia politica e parlamentare...
Corriere 30.5.15
La spartizione di un impero malato
L’ultima guerra degli ottomani
risponde Sergio Romano


Perché con la fine della Prima guerra mondiale solo Francia e Inghilterra ottennero
il controllo di territori precedentemente appartenenti all’Impero Ottomano (penso si trattasse di colonie che vennero però definiti col termine di «mandati»)? E il Giappone dove combatté? Che cosa ottenne?
Cesare Scotti

Caro Scotti,
La spartizione dell’Impero Ottomano fu la maggiore preoccupazione della Francia e della Gran Bretagna dopo lo scoppio della Grande guerra. Il declino della Sublime Porta era iniziato più di un secolo prima e non vi era stata guerra o crisi, da allora, senza che la Turchia imperiale venisse mutilata nei suoi territori europei e in quelli del Levante a profitto delle altre potenze. Quando i Giovani Turchi, nel 1914, sperarono di arrestare questo ciclo storico entrando in guerra a fianco della Germania, fu chiaro a tutti che una Turchia sconfitta avrebbe perduto tutto ciò che ancora restava del suo impero.
A Parigi e a Londra fu deciso che sarebbe stato opportuno evitare le discussioni del giorno dopo bruciando i tempi e disegnando subito una nuova carta del Medio Oriente. I negoziatori dei due Paesi furono Georges Picot per la Francia e Mark Simes per la Gran Bretagna. Con una lunga trattativa, durata parecchi mesi e conclusa nella primavera del 1916, ciascuno dei due prenotò per sé la parte dell’Impero in cui il suo Paese aveva maggiori interessi. La Francia avrebbe avuto il Libano, la Siria di Damasco e Aleppo, la Cilicia e una parte dell’Armenia; mentre la Gran Bretagna si sarebbe impadronita di una parte della Grande Siria sino al Giordano, della Mesopotamia e di alcune zone della penisola araba sino al Golfo.
La spartizione delle spoglie venne poi parzialmente modificata dalle altre promesse che gli inglesi avevano fatto durante la guerra. Quelle di Lawrence d’Arabia alla famiglia dello Sceriffo hascemita della Mecca non erano compatibili con quelle fatte alla Francia; e gli hascemiti, dopo avere cercato di installarsi a Damasco, dovettero accontentarsi della Mesopotamia e della Transgiordania. Le promesse fatte al movimento sionista di Chaim Weizmann con la Dichiarazione di Balfour (un focolare per gli ebrei in Palestina) erano difficilmente compatibili con quelle fatte agli arabi, e la Gran Bretagna cercò di arbitrare il dissenso assumendo direttamente, con un mandato della Società delle Nazioni, l’amministrazione di una parte della Palestina.
Furono conclusi nel frattempo accordi con la Russia a cui erano stati promessi gli Stretti, nel cuore dell’Impero Ottomano, e altri accrescimenti territoriali lungo le sue frontiere meridionali. Ma la rivoluzione bolscevica, nell’ottobre 1917, estinse il credito russo. Quanto all’Italia, entrata in guerra nel maggio del 1915, non fu inclusa negli accordi per la spartizione delle province arabe dell’Impero Ottomano, ma li riconobbe nel corso di un incontro a Saint Jean de Maurienne, in Savoia, del maggio 1916. In quella occasione le fu riconosciuto il diritto a un’area d’influenza in Anatolia nella zona di Adalia e a Smirne .
Alcuni di questi cambiamenti territoriali durarono sino al secondo dopoguerra, ma altri furono spazzati via da nuovi conflitti. Gli accordi per la spartizione dell’Impero Ottomani furono firmati a Sèvres, nel 1919, da un rappresentante del Sultano. Ma tre anni dopo, il Sultano sarebbe uscito di scena e Kemal Atatütk, fondatore della Repubblica turca, avrebbe rimesso in discussione le clausole concordate precedentemente, fra cui la zona d’influenza italiana. Realisticamente le maggiori potenze capirono che la nuova Turchia sarebbe stata un osso molto più duro del vecchio impero e rinunciarono alle loro pretese.
Due parole infine sul Giappone. Entrò in guerra dopo avere offerto la sua collaborazione alla Gran Bretagna, protesse le linee di navigazione del Pacifico contro le incursioni della flotta tedesca, si impadronì degli arcipelaghi che la Germania aveva conquistato nel secolo precedente, approfittò del conflitto per estendere la sua influenza sulla Cina. Dopo la fine della guerra, infine, ottenne un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza della Società della Nazioni. Era stato promosso al rango di potenza mondiale e si servì del suo nuovo status per partire alla conquista dell’Asia negli anni seguenti.
Corriere 30.5.15
Il prelato tedesco Alois Hudal
La fede del vescovo nel nazismo buono
di Frediano Sessi


Nell’aprile del 1945, molti gerarchi nazisti, in fuga, trovarono a Roma, presso il Collegio teutonico di Santa Maria dell’Anima, un lembo di patria nazista, in cui ottenere aiuto, per sfuggire alla cattura. Grandi criminali di guerra, responsabili dello sterminio degli ebrei e di uccisioni sistematiche di civili, ebbero nel rettore dell’Anima, il vescovo Alois Hudal, un aiuto sicuro. Passaporti e identità immacolati, biglietti di viaggio e un imbarco dal porto di Genova, per l’espatrio, furono garantiti a tutti. Il vescovo Hudal riuscì a nasconderli in case del Vaticano e a ottenere sui documenti il visto della Croce Rossa Internazionale.
«Le anime degli uomini sono soggette solo al giudizio di Dio». Con questa ferma convinzione, il prelato tedesco Hudal, che pregava spesso per la salvezza dell’anima di Hitler e che vedeva in lui l’uomo mandato dalla provvidenza per combattere l’ateismo comunista e capitalista, e portare alla conquista l’Occidente cristiano, aiutò a nascondersi e a fuggire dagli Alleati: Joseph Mengele; Adolf Eichmann, l’organizzatore dei trasporti di ebrei verso lo sterminio; Gustav Wagner, comandante del Lager di eliminazione di Sobibor; Eduard Roschmann, lo spietato macellaio di Riga e molti altri ancora. Con il suo nuovo romanzo storico ( L’anima del Fuhrer , Marsilio), Dario Fertilio ricostruisce in modo «critico» la storia controversa di questo servo del Vaticano, poco amato da Papa Pacelli, su cui, nel dopoguerra, è sceso il silenzio.
Il romanzo è costruito a partire da un materiale documentario e da fonti inedite (tra cui i libri e il diario scritti da Hudal) ed è sostenuto da una scrittura lucida e appassionata che conduce il lettore dentro la storia ma, insieme dentro le vite, i pensieri e i sentimenti dei protagonisti. Fertilio ricostruisce puntualmente i contesti in cui si svolgono i fatti e consente al lettore di entrare direttamente nei luoghi del racconto, di un’Europa distrutta dalla guerra, in cui era difficile sopravvivere anche se scampati al terrore dei bombardamenti o delle deportazioni.
Al tempo stesso si interroga sulle idee di Hudal, per il quale esisteva un nazismo buono, spirituale e uno malvagio. Per questo motivo, aiutando i gerarchi in fuga, restò coerente con la sua idea di convertire al cristianesimo i nazisti. E tuttavia, Fertilio, sottolinea come questa storia sia di per sé ambigua: chi aveva interesse a che Hudal agisse in tal modo? Il Vaticano e gli americani per continuare la lotta contro il comunismo? I sovietici che cercavano tra i nazisti scienziati per la loro nuova guerra contro l’occidente? Alla fine, restano aperti interrogativi inquietanti, su una storia non ancora risolta.
Il Sole 30.5.15
Anche lo Yuan nelle riserve della Banca d’Italia
di Rita Fatiguso


Pechino Debutto d’onore di Sua Maestà il Renminbi nella riserva della Banca d'Italia. Che lo dichiara apertamente a pagina 162 della Relazione Annuale fresca d’inchiostro: nel 2014 sono stati effettuati per la prima volta acquisti di renminbi cinesi che, alla fine dell’anno, incidevano sul portafoglio complessivo per lo 0,30%.
In valore assoluto la provvista è di 85 milioni,non proprio una fortuna, ma è il gesto che conta. La moneta di Pechino, infatti, non è convertibile, pertanto, tecnicamente, non potrebbe essere ascritta a riserva, infatti le Banche Centrali che fanno provvista di renminbi non sono tenute a dichiararle in bilancio.
Ma il coming out ormai è partito, in molte realtà gli acquisti di renminbi sono un dato di fatto. Anche Banca d’Italia, nonostante i limiti che caratterizzano il renminbi, si unisce al drappello delle Banche Centrali che hanno inserito questa moneta nelle riserve.
Dalla Nigeria che detiene il 10% all’Australia che ha deciso di attenersi al 4% alla Malesia che acquista renminbi a go-go. Tutti casi che dimostrano la crescente, carsica e pervasiva presenza globale del renminbi.
All’internazionalizzazione della moneta Pechino si sta dedicando con metodo certosino. Ora non c’è più soltanto la vicina Hong Kong che già totalizza il 70% del totale di tutte le transazioni in renminbi fuori dalla Cina, pari a un giro di affari di 800 miliardi al giorno. Negli ultimi cinque anni il processo di internazionalizzazione della valuta ha toccato la cifra di 1,8 trilioni di depositi denominati in euro, il renminbi è già la seconda più importante valuta di finanziamento del commercio mondiale, la sesta moneta più scambiata nelle transazioni.
La possibilità che il renminbi funzioni da reserve currency rappresenta il top di questa scalata mondiale, dopo le transazioni e gli investimenti denominati in renminbi e lo sviluppo di hub offshore localizzati in mezzo mondo, infatti, è la volta delle Banche centrali.
Perché le cose potrebbero cambiare a breve, accelerando i tempi sulla data del 2020 fissata dal Governatore cinese Zhou Xiaochun come la deadline della convertibilità totale.
Se il renminbi, ad esempio, entrasse nel paniere dei diritti speciali di prelievo del Fondo monetario che sarà rinegoziato entro l’anno, un obiettivo al quale la Cina punta con fermezza, lo scenario cambierebbe decisamente.
Costruendo i loro portafogli facilitati da bassi o addirittura negativi tassi di interesse ma anche dalla baldanza del renminbi stesso, molte Banche Centrali stanno cambiando rotta rispetto al passato.
L’Official monetary and financial institutions forum (Omfif) ha calcolato che i Cofer data dell’Fmi con i quali si illustra la composizione delle riserve mondiali (che non includono, almeno non ancora il renminbi proprio a causa della non convertibilità), mostrano un recente interesse nella diversificazione dall’oro e dalle solite riserve monetarie.
Certo, quando il Fondo monetario avrà deciso cosa fare del renminbi e se deciderà di includerlo nel paniere, tutte le Banche Centrali diventeranno automaticamente detentrici di renminbi attraverso i loro Diritti speciali di prelievo.
Per la cronaca, sempre nella Relazione si legge che la Banca d’Italia dichiara 3.989 milioni di euro di attività nette verso l’Fmi, inclusi i Diritti speciali di prelievo, in calo rispetto ai 4.534 del 2013.
Chi fa incetta oggi di renminbi, quindi, si porta ancora più avanti, spianando a sua volta la strada alla moneta di Pechino.
Il Sole 30.5.15
Listini in ostaggio di Grecia e Cina
Tengono banco i negoziati tra Atene e i creditori internazionali e i timori di una bolla del credito a Pechino
di Marzia Redaelli


È stata una settimana impegnativa per gli operatori di Borsa, alle prese con la volatilità. E se è vero che le oscillazioni dei mercati offrono grandi opportunità di profitto agli speculatori, l’occasione è stata ghiotta, perché i saliscendi sono stati accentuati da numerosi fattori: lunedì, festività contemporanee sulle principali Piazze mondiali hanno ridotto gli scambi, e ampliato gli scostamenti tra domanda e offerta dei titoli; le voci contrastanti sui negoziati tra il governo greco e i creditori internazionali hanno lasciato sospesa la spada di Damocle sull’Unione Monetaria; i pochi dati macroeconomici diffusi nei giorni scorsi hanno accresciuto l’incertezza, anziché delineare un quadro fermo della realtà. Dalla Cina, inoltre, giungono timori per lo scoppio di una bolla creditizia, resi più concreti dai fallimenti di alcune società e dal varo di norme per contenere le insolvenze; però i provvedimenti contrastano con la politica espansiva di Pechino e le azioni di Shanghai, che da inizio anno sono in rialzo del 42%, hanno perso più del 7% in due giorni.
I titoli di Stato dell’area euro hanno patito le notizie contraddittorie sul possibile accordo tra Atene, Bruxelles e Fondo Monetario Internazionale per portare lo stato ellenico fuori dal guado dei debiti, che sottolineano la distanza tra le parti. Tuttavia, il termine della trattativa è spostato a fine mese e gli alti e bassi delle quotazioni hanno lasciato quasi invariati i rendimenti delle emissioni periferiche, e di quelle greche (il BTp decennale è all'1,8%); il premio sul Bund tedesco, invece, si è allargato, perché in attesa di sapere come finirà la vicenda, gli investitori hanno comprato le obbligazioni “sicure” di Berlino, che pagano 10 centesimi in meno di qualche seduta fa (sotto lo 0,5% da 0,6%). Anche gli indici azionari del Vecchio Continente sono scesi sul venerdì precedente (-1,93% lo Stoxx600), nonostante i segnali positivi dell'aumento della base monetaria, delle vendite al dettaglio della “locomotiva” Germania (+1,7%), del timido risveglio del Pil tricolore grazie agli investimenti, e dell'inflazione in ripresa, sia in Italia, sia in Spagna.
Il Ftse All Share di Milano ha limitato i danni a -1,2% e si conferma la scommessa per il 2015 sull’area euro (è a +24,5% da gennaio e non lontano dai massimi di aprile). Il ribasso sarebbe stato inferiore se ieri pomeriggio non fosse stato appesantito dalla discesa di Wall Street, seguita alla diffusione del Pil americano del primo trimestre rettificato a -0,7% dalla prima lettura a +0,2%, ma stimato a -1% dagli analisti.
Quindi, l’arresto della produzione Usa era previsto; anzi, l’analisi delle componenti rivela una situazione meno cupa del dato di sintesi (la diminuzione delle scorte, per esempio, implica il ripristino nei prossimi mesi). E buone nuove giungono dal settore immobiliare e dagli ordini dei beni durevoli. Comunque gli investitori hanno preferito chiudere il maggio in ritirata, come da tradizione; forse perché sono consci della fragilità della ripresa economica e i continui ritocchi alle statistiche (per la stagionalità, il freddo, gli scioperi ecc.) minano la fiducia nella crescita; o perché sul dollaro aleggia l’aumento dei tassi di interesse - seppur graduale – appena ventilato dalla presidente della Fed, e un suo rafforzamento minaccia gli utili delle imprese quotate già penalizzati nell'export. In barba all’inflazione che inizia a farsi sentire, il biglietto verde ha reagito al Pil indebolendosi sull’euro e il cambio è passato dai minimi di martedì a 1,08 fino alla soglia di 1,1. Anche i tassi dei Treasury americani non hanno registrato tensioni e sono stati addirittura limati su tutte le scadenze, con l’eccezione dei titoli a sei mesi, che remunerano qualche punto in più (lo 0,06%).
Corriere 30.5.15
Le storie parallele di Atene e Dublino Una scomoda (ma utile) lezione
di Danilo Taino


La crisi greca sta provocando una distorsione ottica, quasi psichedelica, in molte parti dell’Europa. Semina l’idea che le politiche adottate per rispondere alla crisi scoppiata ad Atene nel 2010 e poi proseguita in altri Paesi siano del tutto fallite. È una convinzione che sta alla base della propaganda di tutti i partiti cosiddetti populisti — di destra o di sinistra — che di recente hanno registrato vittorie elettorali e, nel caso greco, conquistato il potere. Chi ricorda la situazione sui mercati e nelle economie nei drammatici 2011 e 2012 non può però che vedere una realtà diversa.
E mettere la trasformazione della crisi da finanziaria a politica in una prospettiva differente.
I Paesi sottoposti a un programma formale di salvataggio — Grecia, Irlanda, Portogallo — o di aiuto per le difficoltà del sistema bancario — Spagna — hanno tutti adottato le indicazioni della troika, formata da Unione Europea, Banca centrale europea (Bce), Fondo monetario internazionale: una combinazione di riforme strutturali e di risanamento dei bilanci pubblici in cambio di sostegno finanziario. Il risultato non è solo che la fase acuta della crisi, che ancora nell’estate di tre anni fa era drammatica, è un ricordo: il merito dell’avere tranquillizzato i mercati è in buona parte del famoso intervento di Mario Draghi, nel quale il presidente della Bce assicurò che l’euro non sarebbe fallito. È anche che le economie sottoposte alla cura, che non è stata di semplice austerità, si stanno riprendendo.
La Commissione europea prevede che l’Irlanda crescerà quest’anno del 3,6 per cento dopo essere cresciuta del 4,8 nel 2014: con una disoccupazione prevista al 9,2 per cento nel 2016 da un livello del 13,1 due anni fa. L’economia del Portogallo è tornata positiva: più 0,9 per cento nel 2014 e quest’anno arriverà all’1,6, con la disoccupazione in discesa di tre punti rispetto al 16,4 per cento del 2013. Sia Dublino sia Lisbona, che al picco della crisi non potevano raccogliere denaro tra gli investitori, sono tornate sui mercati e sono uscite dal programma di aiuti. La Spagna quest’anno crescerà del 2,8 per cento e i senza lavoro — problema strutturale antico per gli spagnoli — calano di quasi quattro punti rispetto al 26 per cento di due anni fa. Lo scorso autunno si prevedeva che la stessa Grecia nel 2015 sarebbe cresciuta del 2,9 per cento, con disoccupazione in calo (già nel 2014) rispetto al 27,5 per cento del 2013. Dodici mesi fa, Atene era straordinariamente riuscita a tornare sui mercati a raccogliere denaro sia come Paese sovrano sia con le sue banche. Se, dopo avere vinto le elezioni lo scorso 25 gennaio, Syriza avesse fatto qualche riforma di sinistra — fare pagare le tasse ai grandi evasori, prendere qualche misura per facilitare la creazione di lavoro e magari chiedere ai creditori meno intransigenza sul bilancio pubblico — oggi il suo leader Alexis Tsipras sarebbe il primo ministro della ripresa e del ritorno della Grecia nelle economie europea e globale. Invece, rischia il caos.
Quel che sta succedendo ad Atene — l’incapacità di modernizzare il Paese — è il racconto di un rischio più ampio in Europa: di quel che succede quando un movimento populista raccoglie consensi che gli permettono di influenzare le scelte politiche o addirittura di conquistare il governo.
Ciò che accomuna Syriza con i partiti populisti che si avvicinano al potere in Spagna, in Francia, in Finlandia, in Olanda, o che comunque raccolgono consensi ampi, anche in Italia, è che, a differenza dei partiti consolidati, non hanno quasi niente da perdere se una volta al governo falliscono: al massimo tornano dov’erano prima, all’opposizione o all’insignificanza. Sono nati senza l’amigdala, la parte del cervello che presiede alla paura: possono percorrere la strada dell’azzardo morale perché non rischiano di pagare le conseguenze delle loro azioni. Per questo, in genere, hanno programmi di governo psichedelici ma non credibili, incapaci di confrontarsi con la realtà e di modificarla.
Non è che in Europa le cose vadano bene. Il peggio della crisi economica forse è passato ma i problemi restano: la crescita è bassa, la produttività non migliora, la società invecchia, l’innovazione langue, la disoccupazione rimane alta. La Grande Recessione ha lasciato ferite che ci vorranno anni a rimarginare.
È comprensibile, dunque, che in molti Paesi i cittadini esprimano voti di protesta. Le risposte a questo passaggio difficile, però, si conoscono: riforme nazionali per rendere l’economia dinamica e produttrice di ricchezza, come indicato ieri dal G7 finanziario di Dresda e da Draghi la settimana scorsa; e riforme della Ue, come proposto (ancora in embrione) ieri da Angela Merkel nella conferenza stampa con David Cameron. Quanto ai populismi: il loro acid test è in corso in queste ore, ad Atene.
Il Sole 30.5.15
Schäuble gela Atene: intesa lontana
Smentito l’ottimismo greco, mentre i depositi bancari sono ai minimi da più di dieci anni
di Alessandro Merli


DRESDA È la questione più urgente per l’economia globale, ma i ministri finanziari e i governatori del G-7 riuniti a Dresda non le hanno dedicato, negli incontri ufficiali conclusi ieri, che qualche minuto.
La gravità della situazione della Grecia è stata ribadita ieri dalle ultime cifre della Banca centrale europea sulla fuga dalle banche del Paese. Nel mese di aprile, i depositi delle famiglie e delle imprese sono calati di 5 miliardi di euro, a 133,7 miliardi, la settima riduzione mensile consecutiva. Dall’inizio della campagna elettorale che ha portato al potere il movimento di estrema sinistra Syriza nel gennaio scorso, 31 miliardi di euro, il 19% dei depositi, hanno lasciato i conti bancari. Il totale dei depositi bancari ha a sua volta accusato una contrazione di oltre 5,6 miliardi di euro, a 139,4 miliardi, il livello più basso da oltre dieci anni a questa parte.
La situazione di liquidità del Governo è precaria, anche se ieri Atene ha dichiarato di avere le risorse per rimborsare la prossima rata di prestito al Fondo monetario internazionale, poco più di 300 milioni di euro, il 5 giugno prossimo. Altre tre rate, per 1,3 miliardi di euro circa, sono in scadenza entro il 19 giugno e la Grecia ha l’opzione di chiedere all’Fmi di pagarle tutte insieme all’ultima data possibile, ma per ora non lo ha ancora fatto. Non è chiaro se Atene disponga delle risorse per far fronte a questi impegni.
Al G-7, i ministri hanno ascoltato una breve relazione del commissario europeo, Pierre Moscovici, sullo stato del negoziato della Grecia con i rappresentanti dei creditori internazionali (Commissione, Banca centrale europea, Fmi). Non si è parlato di una data ultima per raggiungere un accordo, perché, secondo la secca risposta del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, in conferenza stampa, «il programma è stato esteso fino al 30 giugno. A quel punto, se non c’è accordo, il programma finisce». «Ogni rinvio nella decisione aumenta la minaccia di un incidente» che può provocare l’uscita della Grecia dall’euro, ha sostenuto il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Jacob Lew. «Se le scadenze vengono prese sul serio è meglio per tutti», ha affermato il rappresentante di Washington.
Schäuble ha anche ripetuto che «le notizie ottimistiche provenienti da Atene (nei giorni scorsi fonti greche hanno parlato ripetutamente di accordo imminente, ndr) non riflettono lo stato del negoziato». Tutti i partecipanti al G-7 concordano che il lavoro da fare prima di arrivare a un’intesa, che possa sbloccare i 7,2 miliardi di euro ancora pendenti dal secondo pacchetto di aiuti, è ancora molto. Secondo fonti del G-7, come il Sole 24 Ore ha riferito ieri, la riforma dell’Iva e delle pensioni sono i due punti decisivi, su cui permangono divergenze fra la Grecia e i suoi creditori. «I politici – ha detto Schäuble – conoscono la gravità della situazione, ma sono responsabili per tutta l’eurozona, non per un solo Paese». Dal canto suo, il ministro francese, Michel Sapin, ha ripetuto che «Grexit, l’uscita della Grecia dall’unione monetaria, non è uno scenario» preso in considerazione dai partner europei.
Alla fine dei lavori, il senso di maggiore urgenza è stato impresso da un non europeo, proprio l’americano Lew, favorevole a un accordo temporaneo “d’emergenza”. La ragione è chiara: la situazione greca, ha detto, crea «grande incertezza nel momento in cui il mondo ha bisogno di maggiore stabilità e maggiore certezza». Il fatto che la ripresa economica sia «modesta e diseguale e abbia riservato molte delusioni negli ultimi anni», come ha spiegato il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, è illustrato dal dato negativo sulla contrazione dell’economia Usa nel primo trimestre dell’anno, pubblicato ieri, un elemento ben presente nelle considerazioni di Lew. Questi ha sollecitato «tutte le parti in causa a fare di più», ma in particolare ha sostenuto che «la Grecia deve essere pronta a prendere decisioni difficili e spiegare con chiarezza i prossimi passi».
Altri due dei protagonisti della saga della Grecia, il presidente della Bce, Mario Draghi, e il direttore dell’Fmi, Christine Lagarde, hanno evitato di pronunciarsi pubblicamente. Draghi, che ha lasciato Dresda in mattinata, è nel “periodo di silenzio” che il consiglio della Bce si è autoimposto nella settimana precedente la riunione di politica monetaria (fissata per mercoledì prossimo a Francoforte). La signora Lagarde aveva detto giovedì, secondo un’intervista alla “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, di considerare l’uscita della Grecia dall’euro «una possibilità». Il quotidiano tedesco ha dovuto pubblicare ieri una correzione, ammettendo di aver modificato la citazione.
Il Sole 30.5.15
Festival dell’Economia di Trento
La disuguaglianza divide il mondo
Stiglitz: la responsabilità è della politica. Boeri: la mobilità sociale porta crescita
di Armando Massarenti


È con un forte richiamo alle responsabilità della politica, e non dell’economia, che si è chiuso ieri il discorso del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz su «La grande frattura. Nuove prospettive sulla disuguaglianza e su come ridurla» al festival dell’Economia di Trento, quest’anno dedicato alla mobilità sociale. Perché se è vero che, come sostiene Stiglitz, le disuguaglianze sociali e la sempre più scarsa mobilità sociale sono frutto dei meccanismi economici di mercato, è solo grazie a mirate e lungimiranti scelte politiche che si può provare a porvi rimedio. «I cambiamenti graduali non sono sufficienti. È urgente prendere decisioni oggi per prevenire le diseguaglianze dei decenni a venire». Per l’economista americano «una delle questioni principali sono le riforme dell’Eurozona e le politiche di austerità che non hanno mai funzionato e anzi hanno soffocato la ripresa ancora di più. L’austerità sta uccidendo l’Europa e la crescita futura.
L’analisi di Stiglitz si è concentrata in particolare sugli Stati Uniti che, al contrario di ciò che ancora oggi si tende a credere, sono diventati uno dei Paesi più disuguali del mondo, anche in relazione al tema delle opportunità. «La sistematica relazione tra diseguaglianze dei redditi diseguaglianze delle opportunità non deve sorprenderci», ha detto Stiglitz dopo aver mostrato una serie di dati e le molteplici dimensioni dell’ineguaglianza: maggiore ricchezza ai vertici della società, aumento dei poveri, declino della classe media, diversi trattamenti nell’accesso alla salute e alla giustizia.
Ma anche da un punto di vista meramente economico, Stiglitz ha cercato di mostrare che diseguaglianza e scarsa mobilità sociale sono di per sé poco auspicabili anche da un punto di vista meramente economico. Ha criticato ad esempio la vecchia idea di Okun secondo cui la diseguaglianza aumenta l’efficienza economica e andrebbe trovato un trade off tra le due.
Non solo essa provoca un danno alla democrazia, divide la società e provoca una serie di altre conseguenze sgradevoli, ma fa a pugni anche con la crescita. «Equità e buone performance economiche sono complementari. La perdita di opportunità significa perdita di risorse. Noi possiamo permetterci un grado più alto di equità. Non solo: questa aiuterebbe l’economia. Molti paesi poveri hanno “scelto” politiche egualitarie».
Sarà interessante ascoltare, nei prossimi giorni, nel ricchissimo programma del festival, gli interventi di Krugman e di Piketty le cui analisi divergono su molti punti rispetto a quelle di Stiglitz. Oppure dei protagonisti italiani, dal premier Renzi, di scena oggi, al ministro dell'economia Padoan al Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco.
Che la mobilità sociale sia importante per ragioni di equità ma anche di efficienza e di crescita economica è un concetto che Tito Boeri, direttore del Festival dell’Economia, ha espresso inaugurando i lavori, perché mobilità «vuol dire consentire a chi ha le capacità di emergere». Giuseppe Laterza ha ricordato quanto ciò sia problematico nel nostro paese ricordando il libro di Visco su Investire in conoscenza, una puntuale denuncia delle carenze italiane in tema di capitale umano.
Nella sua nuova veste di presidente dell’Inps Boeri ha inoltre auspicato che l’Istituto possa dare «un contributo alla crescita dell’equità sociale e al miglioramento del welfare del Paese». Alla cerimonia inaugurale hanno preso parte anche il governatore del Trentino Ugo Rossi, il presidente dell’Università di Trento Innocenzo Cipolletta, il rettore dell’ateneo trentino Paolo Collini, il sindaco di Trento Alessandro Andreatta, il chief economist del gruppo Intesa Sanpaolo Gregorio De Felice, la curatrice della mostra del decennale Nunzia Penelope. Sì, perché sono esattamente dieci anni che il festival dell’Economia invita strati sempre più ampi di pubblico a riflettere su temi chiave che implicano accurate analisi tecniche ma che riguardano da vicino la vita di tutti. «La crescita economica - ha detto ancora Boeri - è fondamentale per garantire maggiore mobilità sociale, perché in un paese destinato alla stagnazione è molto facile che le persone che ereditano patrimoni vivano di rendita e quindi siano in una situazione di vantaggio assoluto rispetto a coloro che magari investono tutte le loro energie nella carriera lavorativa, che magari fanno benissimo nel loro campo ma non riusciranno mai a colmare quel divario perchè l’economia cresce poco».
Il Sole 30.5.15
Vaticano, più controlli sulla finanza
Rapporto Aif: nel 2014 sendono a 147 le segnalazioni di transazioni sospette
di Carlo Marroni


Si riducono le operazioni finanziarie sospette in Vaticano, in un contesto di progressivo rafforzamento di un sistema interno di prevenzione e contrasto agli illeciti. E' il frutto di un processo di riforma delle finanze vaticane, che mentre resta un cantiere aperto sul fronte delle strutture su quello delle vigilanza si avvia verso un consolidamento. Nel rapporto annuale dell'Aif, l'Autorità di informazione finanziaria emerge che lo scorso anno si sono registrate 147 segnalazioni di transazioni sospette, in calo rispetto alle 202 del 2013. Per la prima volta sono segnalate operazioni bloccate in via preventiva: sono state tre per un ammontare di 561mila euro. Inoltre sono stati sette i rapporti al Promotore di giustizia (8 nel 2013): per questi casi «i potenziali reati prospettati davanti all'autorità giudiziaria sono tentata frode e tentata grave evasione fiscale», anche se - va detto - dentro il Vaticano non c’è una regime fiscale. Inoltre lo scorso anno l’Aif – anche su sollecitazione di Moneyval – ha effettuato la prima ispezione negli uffici dello Ior, che fu eseguita con la consulenza della Ernst & Young: «I risultati non hanno mostrato criticità fondamentali» ma quanche correttivo deve essere apportato. I soldi contato in uscita, che devono essere dichiarati sopra 10mila euro, sono ammontati a 22 milioni, e 11 quelli in entrata.
L'Aif ha inoltre il compito, per compito di “dialogare” con le autorità degli altri paesi, sia in campo di contrasto al riciclaggio sia in materia di vigilanza. Con l'Italia restano delle criticità, rivenienti dai casi giudiziari scoppiati negli anni scorsi attorno allo Ior, tanto che da quattro anni di fatto le relazioni “bancarie” tra i due stati sono congelate, e si stima che ci siano almeno un centinaio di milioni di depositi vaticani fermi negli istituti italiani. Come procede il dialogo con Via Nazionale? «Ci sono un buon grado di dialogo e di reciproca fiducia e speriamo, tra non molto tempo, di formalizzare la cooperazione e gli scambi di informazione» con Banca d’Italia, ha risposto il direttore Aif, Tommaso Di Ruzza, in carica dall'inizio dell’anno. Nel 2014 l’Aif ha «rafforzato massicciamente la cooperazione internazionale» ha aggiunto il presidente, René Brulhart, richiamando la sottoscrizione dei protocolli d'intesa con le altre unità di informazione finanziaria di molti altri paesi, Italia inclusa.
il Fatto 30.5.15
Libertà e giustizia, 2 giugno a Testaccio con Landini e Rodotà


Il giorno della Festa della Repubblica, martedì 2 giugno, è in programma a Roma l’iniziativa “Il diritto alla libertà, il dovere della libertà”: manifestazione nel popolare quartiere Testaccio, nell’Area della Città dell’Altra economia, organizzata da Libertà e giustizia. Musica e festa dalle 16 e dal-le 17,15 gli interventi di Sandra Bonsanti, Paul Ginsborg, Maurizio Landini, Stefano Rodotà, Roberto Settembre, Alberto Vannucci e Gustavo Zagrebelsky. Alle 20,30 il coro gospel della Scuola di musica di Testaccio, alle 20,45 “le Metamorfosi” in concerto e alle 21,15 “Maldestro” in concerto.
Repubblica 30.5.15
Cosa dicono davvero i dati Istat sulla ripresa
di Alberto Bisin


IL PAESE ha finalmente ripreso a crescere; il timore della deflazione è finito. I titoli dei giornali si sprecano, ed è giusto che sia così. Il Paese ha bisogno di buone notizie e la pubblicazione dei conti economici trimestrali da parte dell’Istat permette un qualche ottimismo. Persino il Financial Times titola, “L’Italia torna in piedi”. La notizia del ritorno alla crescita mette in secondo piano addirittura le previsioni di tracollo definitivo della Grecia che in questi giorni hanno innervosito non poco i mercati, così come i timori di scoppio della presunta bolla sull’azionario in Cina.
Commentare queste notizie per un economista è sempre compito ingrato. Se il rapido ciclo delle notizie rende i giornali inclini a concentrarsi sui dati congiunturali, una prospettiva più analitica non può che soffermarsi con maggiore attenzione sulle tendenze di crescita dell’economia e quindi sulle indicazioni che le diverse componenti dei dati congiunturali permettono di trarre sulla situazione economica generale. Da questo punto di vista i dati Istat vanno purtroppo letti in modo meno trionfale di quanto non vorremmo fare.
Innanzitutto la crescita del Pil nel primo trimestre 2015 è stata dello 0,1% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente (questa è la cosiddetta “crescita tendenziale”). Non è molto se confrontata all’1% della Germania, al 3% degli Stati Uniti, al 2,4% del Regno Unito e anche allo 0,7% della Francia. Il risultato è ancora peggiore se si tiene conto che la crisi ha colpito il nostro paese più severamente di questi altri e che quindi sarebbe naturale aspettarsi un effetto “rimbalzo” più pronunciato in Italia. L’immagine che meglio riassume la situazione economica del Paese purtroppo è quella della crescita cumulata del Pil negli ultimi 15 anni. Se il Regno Unito è cresciuto di circa il 30% e l’Eurozona di circa il 15%, l’Italia è rimasta al palo. Zero. Questo è il risultato di una combinazione di tre fattori: una minore crescita fino al 2008, una recessione più profonda fino al 2013, e una ripresa più tarda e più lenta da allora.
Una lettura più ottimistica dei nuovi dati Istat è però chiaramente possibile. I dati sulla crescita tendenziale in Italia patiscono il ritardo della ripresa, che ha notevolmente faticato negli ultimi tre trimestri del 2014. I dati di “crescita congiunturale”, relativi cioè all’ultimo trimestre, sono invece più favorevoli, sia in assoluto che relativamente agli altri paesi. L’Italia cresce dello 0,3%, come la Germania e il Regno Unito, e più degli Stati Uniti. Questi sono i dati che potrebbero farci pensare di aver svoltato l’angolo. Difficile a dirsi naturalmente: estrapolare da un trimestre in controtendenza è operazione statisticamente suicida che evito con piacere. Ma un’occhiata ai dati disaggregati è utile per cercare di farsi un’idea più precisa di cosa stia succedendo.
Innanzitutto la crescita del primo trimestre del 2015 è dovuta in misura sostanziale alla crescita degli investimenti fissi lordi e delle scorte, senza un contributo positivo dei consumi finali nazionali. La spesa delle famiglie è leggermente diminuita e quella della Pubblica Amministrazione è aumentata in pari entità percentuale. Questo non è un buon segno naturalmente, nel senso che una solida ripresa dopo una recessione è associata tipicamente ad una rinnovata fiducia dei consumatori e quindi ad una ripresa dei consumi assieme a quella degli investimenti. Anche il fatto che cresca l’Agricoltura e non i Servizi non è un buon presagio: è nei Servizi che si nascondono le maggiori opportunità di sviluppo di una economia moderna e avanzata come la nostra. Anche a “nutrire il pianeta” e produrre “energia per la vita” si arriva attraverso innovazione e tecnologia, è lì che si genera crescita.
Ma il dato più rilevante, non so dire se allarmante, è che la crescita congiunturale degli investimenti si è manifestata in larga parte nel settore Mezzi di trasporto. Sarà anche vero che quando va bene la Fiat va bene il Paese, ma una crescita più omogenea tra settori avrebbe indicato più nettamente una ripresa in atto.
Infine, è necessario anche ridimensionare i commenti sulla fine della deflazione. L’inversione di tendenza dei prezzi è dovuta in parte sostanziale al fatto che il calo dei prezzi dei beni energetici abbia rallentato notevolmente. Il deflatore della spesa delle famiglie residenti e quello degli investimenti sono calati ma non direi in modo preoccupante. La notizia rilevante riguardo ai prezzi è quindi che possibili tendenze deflattive continuino a non manifestarsi.
Riassumo quindi, per chi si fosse perso nella noiosa ma inevitabile analisi dei dati. A costo di apparire Cassandra, come spesso accade agli economisti che discutono della situazione economica del nostro Paese, i dati dell’Istat sono meno positivi di quanto non possa sembrare. Vi sono pochi dubbi che la ripresa, ammesso che sia iniziata, rimanga debole e fragile. E certo, meglio che niente, ma uno 0.1%, o 0,3% che dir si voglia, non ha un gran potere taumaturgico di per sé.
Il Sole 30.5.15
Processi sommari e candidati controversi
di Paolo Pombeni


La politica non può essere un gioco al massacro in cui si approfitta delle pulsioni antipolitiche (contraddizione in termini, ma non l’abbiamo inventata noi) per guadagnare protagonismo. Di questo va tenuto conto su tutti i fronti.
Quello, innanzitutto, che vede la Bindi trasformare la commissione antimafia in un tribunale di salute pubblica, ma anche quello che ha portato il segretario del Pd a lasciar candidare a governatore della Campania chi aveva dei problemi oggettivi sul fronte giudiziario.
Perché tocchi all’antimafia decidere chi è presentabile e chi no alle elezioni appare assai poco comprensibile, visto che una parte almeno di quelli su cui ha messo l’ostracismo sono accusati di reati che con la mafia non c’entrano nulla (a cominciare da De Luca). Men che meno appare giustificabile che una commissione parlamentare si pronunci anziché su principi che derivano da leggi, su principi che derivano da “codici etici” sul cui valore vincolante per coloro che non li hanno sottoscritti e che non fanno parte di formazioni che li hanno adottati c’è da dubitare. Dovrebbe essere un principio costituzionale che nessuno può essere giudicato se non da un giudice che è tale perché c’è una legge che l’ha costituito in quella posizione. Fuori di questa fattispecie ci sono solo quelli che si chiamano “giudizi politici”, cioè opinioni il cui accreditamento spetta ai cittadini, cioè in questo caso agli elettori. Tutto il modo con cui è stata gestita la vicenda, poi, rende almeno legittimi i sospetti di una strumentalizzazione politica da parte della Bindi, anche in relazione ai risentimenti e ai malumori interni al partito del premier.
Detto questo, bisogna altresì riconoscere che la scelta di De Luca come candidato alla carica di governatore in Campania non è stata una mossa azzeccata. I giudizi sulla persona sono vari e non mancano molti che lo considerano un politico abile e capace. Ma qui il problema non è il giudizio sulla persona, ma la sua posizione oggettiva nel quadro di una legge come la Severino lo rende debole, se non addirittura azzoppato in partenza come ipotetico governatore.
Sui limiti, come dei pregi, della legge in questione si può discutere quanto si vuole (peraltro così perché vittima di varie manipolazioni nel passaggio in parlamento), ma la legge c’è, è stata votata da un’ampia maggioranza ed è già stata applicata più volte. Non è un bello spettacolo che in un partito di governo, che per di più si candida a cambiare il paese nonostante le fortissime opposizioni che incontra, si ipotizzi di non tenerne conto. Lo stesso candidato De Luca non è in buona posizione per difendersi da quella che giudica un’ingiustizia (e può anche darsi che lo sia) semplicemente rifiutando di sottomettersi alla normativa vigente.
È vero che Renzi non ha una responsabilità diretta nella scelta di De Luca e che in qualche modo ha dovuto accettare i risultati delle primarie campane. Ma un partito non può pensare di rimanere saldamente tale se accetta di operare su due livelli: quello nazionale, in cui domina il leader con la sua capacità comunicativa e la sua azione di governo al centro; quello locale in cui è meglio lasciar fare a chi comunque sembra in grado di portare voti e successo, dunque alle sedimentazioni locali del potere purché possano promettere questo risultato.
Purtroppo Renzi non è stato in grado di mostrare che oltre ad essere un efficace presidente del consiglio è in grado di fare anche fino in fondo il leader del partito. È vero che deve sopportare una guerriglia interna e ai suoi fianchi che sarebbe degna di miglior causa, ma è anche vero che non può ignorare che l’immagine del Pd non può reggersi solo su di lui: ha bisogno che la gente possa verificare a 360 gradi che “il verso” lui lo sta cambiando anche a livello locale. E qui non c’è solo il caso della Campania, che è il più clamoroso, ma in Liguria non gli mancano i problemi, per non dire di risultati meno visibili, ma altrettanto sfavorevoli come ci sono stati anche nelle recenti amministrative in Trentino.
Il segretario-premier ha detto che dopo le regionali si dedicherà a fondo alla riforma del suo partito. A prescindere che non si sa come possa sfuggire all’accusa di voler chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati, gli risulterà difficile riformare dei partiti locali che sono comunque riusciti a piazzare i lor o attuali uomini chiave nei centri locali di potere.
Le vendettucce politiche della Bindi non faranno più che avvelenare ulteriormente i pozzi a cui si abbevera una politica in fase di stanca, ma il governo del paese è in realtà un sistema di governo in cui il tessuto dei poteri locali non è solo una marginale rendita di posizione, ma è il primo banco di prova per verificare la fisionomia globale di una classe politica. Sottovalutare questa elementare verità non aiuterà certo chi come Renzi vuol giocare in grande la partita della svolta da imprimere al sistema.
Corriere 30.5.15
«Un aiuto all’opposizione»
«Un pezzo del partito cerca la rivincita, lavora per far perdere il Pd pur di farmi male». Di fronte alla scelta di Bindi, Renzi si dice «sconcertato»: «Il bersaglio ero io».
«Cercano solo una rivincita» Ora il leader non esclude di spostare Boschi al Nazareno
di Maria Teresa Meli


ROMA È una frase pronunciata da Matteo Renzi («Si vota per le Regionali, non per il Congresso del Pd») a far capire quale sia la vera posta in gioco delle elezioni di domani. Il premier sa che nelle urne c’è chi vorrebbe prendersi «una rivincita». E secondo lui la decisione di Rosy Bindi, assunta in solitaria, senza quasi consultare i membri della commissione Antimafia, di presentarsi davanti alle telecamere per elencare i nomi degli impresentabili, è da interpretare secondo questa chiave di lettura.
Del resto non è un caso la battuta, seppure scherzosa, di Bindi, che si è presentata con due commissari di provata fede bersaniana che finora non si erano quasi mai fatti vedere in quell’organismo, Davide Mattiello e Luisa Bossa, e li ha presentati così: «Mi sono portata le guardie del corpo».
Già, ormai ci sono due partiti nel Pd. Lo ammetteva qualche giorno fa Cesare Damiano. Lo dice apertamente al Foglio il senatore Stefano Esposito che, addirittura, si augura un allontanamento della minoranza. Quella minoranza che, ieri, seppure con sfumature diverse (più cauto Bersani, più sparati D’Attorre, Fassina e Cuperlo) ha difeso la scelta di Bindi.
«C’è un pezzo del partito che lavora per far perdere il Pd pur di farmi male», dice sconsolato il premier ai più stretti collaboratori. Ma lui, nelle ultime ore, quell’uscita che lo ha lasciato «sconcertato e basito» se l’aspettava. Aveva capito che la presidente dell’Antimafia non avrebbe chiesto l’attenzione dei giornalisti e la luce dei riflettori solo per fare un elenco di illustri sconosciuti senza un grosso nome del Pd: «Il bersaglio ero io». E quindi quale miglior obiettivo da centrare di quel Vincenzo De Luca già tanto chiacchierato per i problemi che ha con la legge Severino? «C’è gente, dentro il partito che non accetta di aver perso il congresso e le primarie», è il ritornello del presidente del Consiglio in questi ultimi giorni di campagna.
A Palazzo Chigi, al di là delle frasi da comizio e delle dichiarazioni ufficiali, c’è una certa preoccupazione per la mossa di Bindi. «Non riusciamo a capire — spiegano gli uomini più vicini al premier — che effetto avrà la sua uscita». Lo stesso Renzi ha spiegato ai fedelissimi che è «politicamente» impossibile comprendere che effetto avrà quella conferenza stampa a meno di 48 ore dall’apertura dei seggi: «Potrebbe condizionare il voto d’opinione di Genova e di Napoli». Soprattutto il primo. Così «si rischia di fare un favore a Berlusconi e a Grillo».
Sarebbe un vero capolavoro, questo. Ma si capisce il perché: la minoranza sta giocandosi la battaglia della vita. Sconfitta sull’Italicum, adesso rischia di veder per sempre trasformata quella che si ostina a chiamare «Ditta», ossia il Pd.
Già, perché se Renzi vincerà anche questa partita andrà avanti come un treno: «Promuoverò una nuova classe dirigente, al centro e in periferia. Non farò nessuna marcia indietro rispetto alle mie idee, bensì passerò al consolidamento della svolta».
In soldoni che cosa significa, questo? Che se finora la minoranza poteva contare sulla poca attenzione che il premier sembrava dare all’idea di un partito strutturato e sul fatto che i vari «ras locali» (e lo si è visto anche in queste regionali) in molti casi contavano più di lui e degli emissari romani, ora non sarà più così.
Da adesso cambierà la musica. È probabile che a questo punto Lorenzo Guerini si sposti alla presidenza del gruppo della Camera (perché dicono che disponga di più consensi di Rosato, il quale a causa delle difficili battaglie parlamentari che ha dovuto condurre per conto di Renzi si sarebbe alienato qualche simpatia), mentre al partito arriverebbe un vicesegretario unico con pieni poteri e la piena fiducia del premier. Alla Camera circola con insistenza il nome di Maria Elena Boschi, per l’abilità politica con cui ha condotto le ultime campagne del governo. Ha un’unica controindicazione: allontanarla dall’esecutivo, dove ha avuto e ha un ruolo chiave, per Renzi potrebbe essere un problema.
La Stampa 30.5.15
L’ennesima guerra insensata
di Federico Geremicca


Ci sono due cose che, più di altre, colpiscono nella vicenda - finalmente conclusa - dei cosiddetti «impresentabili» scovati dalla Commissione Antimafia nelle liste in lizza alle prossime elezioni regionali. La prima è il numero assai ridotto dei candidati non in regola con il codice di autoregolamentazione che i partiti hanno liberamente adottato nel settembre scorso: 16 su circa 4 mila, percentuali da democrazia scandinava...
La seconda è la violentissima reazione dei vertici del Pd, una volta che l’elenco dei 16 «impresentabili» è stato reso noto. Una reazione che ha preso di mira la presidente Rosy Bindi accusata, addirittura, di utilizzare la Commissione Antimafia «per regolare conti interni» al partito.
Partiamo dalla prima questione. A fronte di notizie e campagne incessanti circa il persistere in campo di una classe politica disonesta e corrotta (circostanza, per altro, avvalorata ancora due giorni fa dall’ennesima raffica di arresti in Sicilia) il lavoro svolto dall’Antimafia illumina una realtà quantomeno in trasformazione. All’interno della solita, sterminata pletora di candidati - circa 4 mila, come dicevamo - solo in 16 (11 nelle file del centrodestra e 5 in quelle del centrosinistra) risultano esser stati inseriti in lista in violazione delle regole che gli stessi partiti si sono dati nell’autunno scorso. E’ un dato onestamente sorprendente per l’esiguità del numero di «mele marce», diciamo così, rimaste impigliate nella rete dell’Antimafia.
Non è inutile insistere su questo aspetto perché, al contrario di quanto accaduto con le aspre reazioni della prima ora, il monitoraggio della Commissione presieduta da Rosy Bindi avrebbe potuto esser esaltato dal sistema dei partiti come prova di una opera di moralizzazione avviata con buon successo. Una risposta possibile, insomma, alla martellante campagna di Grillo e Lega contro la «politica corrotta»; un argine al devastante tam tam della cosiddetta «antipolitica» (nutritasi negli ultimi giorni dello slogan, appunto, «fuori i nomi!»). L’occasione, invece, non è stata colta. Anzi: con le durissime accuse mosse al lavoro dell’Antimafia, si è trasmessa ai cittadini l’impressione di un sistema politico non solo sulla difensiva, ma permeato da un’insopportabile presunzione di «intoccabilità».
Le accuse più aspre alla Presidente dell’Antimafia - e veniamo alla seconda e certo più delicata questione - sono arrivate da esponenti del Pd, e perfino da Matteo Renzi, premier-segretario. Accuse, per esser chiari, meritevoli di immediata espulsione della Bindi dal Partito democratico, visto che le è stata contestata la violazione della Costituzione e addirittura l’uso a scopo di «vendetta interna» di un organo istituzionale (la Commissione Antimafia). Ora, non c’è dubbio che il monitoraggio effettuato da quella Commissione possa prestarsi, per molti aspetti - l’utilità del lavoro svolto, i rischi di imprecisione, i tempi in cui sono stati resi noti i risultati del monitoraggio - a obiezioni non infondate. Ma un conto è discutere del merito e altro è cercare di capovolgere la frittata, quasi che la responsabilità della presenza in qualche lista di «impresentabili» (in numero, ripetiamo, assai esiguo) sia dell’Antimafia e non dei partiti che li hanno accolti.
Inoltre, c’è qualcosa di davvero paradossale nella reazione del vertice del Pd: infatti, a fronte di centinaia e centinaia di candidati in campo, un solo iscritto al partito è rimasto impigliato nella rete dell’Antimafia (Vincenzo De Luca: per altro, per un procedimento che è ancora in corso per sua volontà, visto che ha coraggiosamente rifiutato la prescrizione); e quel candidato - De Luca, appunto - a prescindere dal lavoro della Commissione presieduta da Rosy Bindi, è da settimane al centro di polemiche in ragione di una situazione oggettivamente insostenibile (il rischio di sospensione, una volta eletto, nel rispetto di quel che prevede la legge Severino).
Parigi val bene una messa, si usa dire di fronte alla necessità di sacrifici necessari e inevitabili. Ecco: anche Vincenzo De Luca val bene una messa? Fuor di metafora: l’ex sindaco di Salerno è stato candidato alla presidenza della regione Campania perché - oltre ad essersi dimostrato un buon amministratore - ha vinto le primarie del Pd. Ciò nonostante, dal punto di vista giudiziario, è nella situazione nota da tempo: e il lavoro dell’Antimafia - per altro dovuto per legge - non l’ha aggravata. E allora: non conveniva, forse, esaltare la «pulizia» delle liste Pd invece che mettere insensatamente in campo una nuova rissa maggioranza-opposizione? E al presidente del Consiglio non sarebbe più utile - a poche ore dal voto - ricordare le molte e importanti cose fatte dal governo nella lotta alle mafie e alla corruzione, piuttosto che gettar sospetti sul lavoro e addirittura la lealtà di una figura comunque storica del suo partito?
La Stampa 30.5.15
Tre partite nel caos delle urne
di Giovanni Orsina


In un sistema politico fragile e isterico come quello italiano, le elezioni regionali hanno sempre avuto un’importanza notevole: un’occasione per misurare i rapporti di forza, valutare la popolarità del governo e la rimonta delle opposizioni, regolare i conti. Poiché da qualche anno il tasso di fragilità e isterismo del nostro sistema politico si è ulteriormente e notevolmente innalzato, il voto regionale di domani è ancora più importante del solito. Che cosa ci ha insegnato finora questa campagna elettorale, dunque, e quali sono le poste in gioco?
Questa campagna elettorale, innanzitutto, ci ha dato una dimostrazione fin troppo chiara dell’avanzato stato di decomposizione della politica italiana. Una dimostrazione che non va sottovalutata, soprattutto in vista delle sfide che il Paese dovrà affrontare nei prossimi anni nel contesto internazionale, in Europa, nella gestione dell’economia. Qualche esempio della decomposizione? C’è soltanto l’imbarazzo della scelta: un candidato leghista e uno ex leghista in Veneto; un candidato democratico e uno ex democratico in Liguria; il presidente uscente di centro sinistra ripresentato dal centro destra nelle Marche; due schieramenti di centro destra in Puglia l’un contro l’altro armati.
Fiumi di trasformismo in Campania, dove corre un candidato che, in caso sia eletto, non è chiaro se possa diventar governatore né a chi tocchi dire se può o non può.
Ciliegina avvelenata su questa torta immangiabile, la commissione parlamentare Antimafia che si mette a dar patenti di impresentabilità ai candidati. Un’iniziativa politicamente a dir poco inopportuna fin dal suo concepimento che, per i tempi e modi nei quali s’è sviluppata, si è venuta facendo sempre più grottesca; che si è intrecciata strettamente con le faide interne al Partito democratico, fino alle aspre polemiche di ieri; e che ha generato una confusione ancora maggiore e gettato ulteriore discredito sulla politica. Come se non avessimo bisogno di altro.
In questo caos si giocheranno domani per lo meno tre partite. La prima è quella di Renzi. Il Presidente del consiglio ha bisogno di conferme: ne ha bisogno perché il suo governo, com’è ben noto, è privo di una legittimazione elettorale forte; perché un settore del suo partito e dei suoi gruppi parlamentari gli è contro; perché molti che oggi sono con lui ci stanno perché vince - ma potrebbero non starci più, o starci con minor convinzione, se cominciasse a perdere. Ne ha bisogno soprattutto se vuole condurre in porto la riforma del Senato, per la quale oggi ha numeri molto stretti. Uno snodo cruciale, questo, perché senza riforma del Senato si tornerebbe a una logica proporzionalistica - con tanti cari saluti al modello del «Sindaco d’Italia» che il Presidente del consiglio caldeggia.
La seconda partita riguarda la destra. E qui la posta in gioco è perfino maggiore di quanto non lo sia a sinistra. Nel momento in cui arriveranno i risultati del voto, gli elementi da tenere sotto controllo saranno per lo meno tre. In primo luogo, si vedrà se e quanto Renzi sia riuscito a «sfondare» nell’elettorato di centro destra. L’impressione è che, malgrado ci stia certamente provando, finora non ci sia riuscito - ma vedremo. Poi bisognerà capire quanto pesa ancora Berlusconi. Se dovesse dimostrarsi che ormai pesa poco, diciamo meno del dieci per cento, potrebbe arrivare per lui quella fine politica che gli analisti, sbagliando, hanno previsto così tante volte: perché a quel punto Forza Italia non potrebbe più proporsi come elemento di aggregazione del centro destra, e prevarrebbero le spinte centrifughe. Quelle spinte potrebbero anche portare fin da subito all’esplosione dei gruppi parlamentari di Forza Italia - una manna per Renzi, soprattutto in vista della riforma del Senato. Il terzo «osservato speciale» è ovviamente Salvini. Se il leader leghista dovesse andare molto bene, e Berlusconi molto male, potrebbe tentare di proporsi lui come ricostruttore della destra italiana. Magari moderando toni e proposte.
L’ultima partita è quella che sta giocando il Movimento 5 stelle. Anzi: che non sta giocando, dato che i suoi avversari la giocano per lui come meglio non si potrebbe. I grillini fanno ben poca politica ma sembrano non perdere consensi, e la loro presenza continua a segnalare il livello insostenibile di discredito (pure auto-inflitto - si legga ancora alla voce «commissione parlamentare Antimafia») cui sono giunte la politica e le istituzioni. Da questo punto di vista il voto di domani è soltanto una tappa di una via più lunga. Al termine della quale troveremo risposta a un’altra domanda cruciale per il futuro della vita pubblica italiana: se dovesse passare la riforma del Senato e fosse ripristinato il bipolarismo, chi sarebbe l’avversario del Partito democratico? Avremmo un bipolarismo politica/antipolitica coi grillini, o un bipolarismo destra/sinistra? Da dopodomani la direzione di marcia sarà un po’ più chiara.
La Stampa 30.5.15
Matteo rischia che tutto venga addossato a lui
di Fabio Martini


La «bomba» dell’Antimafia ha cambiato senso ai “numeri” di Matteo Renzi. Ora, con la improvvisa politicizzazione della contesa elettorale, una vittoria per 6-1 della maggioranza nelle Regioni in palio finirebbe per essere interpretata - non più come una importante ma fisiologica vittoria - ma invece come un trionfo personale del premier. Più forte di tutto e di tutti gli eventi sfavorevoli, dei gufi reali e di quelli immaginari. E la stessa enfasi finirà per investire un risultato di segno opposto, un 5-2, per non parlare di un 4-3, col centro-destra che mantenesse il Veneto e la Campania, conquistando per esempio la Liguria. Certo, il presidente del Consiglio ha partecipato molto attivamente alla campagna elettorale delle Regionali, ci ha messo la faccia, ma finora era stato difficile individuare un preciso effetto-Renzi. Ma dopo il bollino dell’Antimafia, un risultato mediocre del Pd, finirebbe per portare sul conto del premier la poco felice gestione del caso De Luca.
La Stampa 30.5.15
Il candidato non voluto e poi sostenuto con troppa foga
di Marcello Sorgi


È così, alla vigilia del voto, il Pd è esploso sul caso De Luca. Ma forse sarebbe meglio dire che è saltato per aria sul caso Bindi, dato che già durante la conferenza stampa convocata per comunicare la lista degli impresentabili, e aperta con la notizia che in cima a quella lista c’era il candidato governatore della Campania, un fuoco di fila di dichiarazioni degli esponenti del partito più vicini al premier ha preso di mira la presidente della Commissione Antimafia, accusandola di aver ordito la trama degli impresentabili, e averla fatta slittare fino alla conclusione della campagna elettorale, solo per danneggiare il Pd e il governo.
Inutilmente Bindi ha precisato che la lista non avrebbe avuto effetti diretti sull’eventuale elezione dei cosiddetti impresentabili, altrettanto inutilmente ha ricordato che erano stati tutti i partiti, all’unanimità, a decidere di dotarsi di un codice morale che prevedeva, appunto, di non candidare anche chi era soltanto rinviato a giudizio. L’accusa di alto tradimento partita dallo stato maggiore renziano non è stata scalfita minimamente da queste giustificazioni. Anche perché le ragioni dell’inserimento di De Luca nella lista sono diverse da quelle per cui potrebbe risultare ineleggibile o essere sospeso appena eletto, secondo la Cassazione.
Ieri infatti è venuto fuori che l’ex sindaco di Salerno deve rispondere di truffa, concussione e associazione per delinquere. Se Renzi, Boschi, Guerini e tutti i deputati e i senatori renziani, oltre al presidente del partito Orfini, avessero saputo che si trattava di questo (ma la Bindi non li ha informati) forse non si sarebbero sbilanciati tanto in difesa di De Luca come avevano fatto nei giorni precedenti. L’ex sindaco di Salerno, da candidato mal digerito dopo la vittoria delle primarie, supplicato per settimane di farsi da parte e alla fine accettato malgrado tutto, s’era trasformato, nelle dichiarazioni del premier e dei suoi, in un campione di buon governo, uno che se avesse già potuto governare la Campania avrebbe fatto aumentare il pil, un cittadino innocente fino a prova contraria, da rispettare e non da perseguitare. E Renzi non avrebbe certo affermato con certezza che di impresentabili nelle liste del Pd non ce n’erano.
Ma ormai era troppo tardi per far marcia indietro. Dichiarazioni così impegnative non potranno tanto facilmente essere rimosse o accantonate lunedì, se, in caso di vittoria del centrosinistra in Campania, l’insediamento del probabile governatore De Luca dovesse essere rimesso in discussione dalla Corte d’Appello, unico organo legittimato a convalidare il risultato.
il Fatto 30.5.15
Così seppelliscono la questione morale
di Gian Carlo Caselli


Una grave anomalia del nostro Paese consiste nel valutare gli interventi sul versante dell’osservanza delle regole non in base a criteri di correttezza e rigore, ma in base al parametro di utilità. In sostanza il messaggio è: se applicando le regole si fa qualcosa che danneggia me o qualcuno della mia cordata, metti in conto che tu che applichi le regole dovrai subire attacchi, aggressioni e denunce. È la solita difesa “contro” le regole, uscendo dal circuito delle regole stesse. Un classico è accusare chi fa il suo dovere di uso distorto della funzione per fini politici di parte, appioppando etichette fasulle di appartenenza a questa o quell’altra fazione. Sta succedendo anche alla presidente della Commissione Antimafia Rosi Bindi, accusata ingiustamente di voler favorire una componente del suo gruppo politico a scapito di altre. Lo scopo è quello di sempre: denigrare e svalutare il lavoro che si sta facendo, parlando di altro rispetto al merito. È successo a Falcone e Borsellino quando si occupavano di Vito Ciancimino e dei fratelli Salvo, è successo alla Procura di Palermo quando si occupava del dopo stragi, di Andreotti e Dell’Utri. Succede oggi a Rosi Bindi, quando si occupa, non di un insieme di parole vuote, ma di rompere la cortina di silenzio che sta cancellando la questione morale.
Repubblica 30.5.15
La frattura verticale che agita il Pd il partito diviso alle urne
Rosy Bindi ha immolato se stessa per dimostrare che il premier non è credibile sulle liste
di Stefano Folli


IL PARTITO Democratico arriva alle elezioni regionali diviso e anzi frantumato come nessuno avrebbe potuto prevedere. Altro che convivenza fra una maggioranza renziana e una minoranza bersaniana e dalemiana. La frattura è verticale e i margini per ricomporla sono in apparenza inesistenti. È come se i nemici interni del premier, sconfitti sulla legge elettorale e sempre più ai margini per via della gestione solitaria e fin troppo sicura di sé del segretario, avessero finalmente trovato il terreno della rivincita.
Rosy Bindi, presidente della commissione Antimafia, si scandalizza se qualcuno l’accusa di avere ordito una vendetta personale contro Renzi. In realtà, dal suo punto di vista, dovrebbe essere lieta (e probabilmente in cuor suo lo è) di aver messo con le spalle al muro un politico scaltro come il presidente del Consiglio. È riuscita lì dove molti altri hanno fallito durante un anno e più. Certo, tirar fuori la lista di proscrizione a 48 ore dal voto ha richiesto una rara spregiudicatezza. E metterci dentro, a mo’ di bomba a orologeria, mantenendo il segreto fino all’ultimo, il nome del candidato governatore della Campania, De Luca, è un’operazione politica cinica, sia pure avvolta nel mantello della «questione morale».
Tuttavia, come mormora a mezza bocca un parlamentare della minoranza del Pd, «a brigante, brigante e mezzo». Il che rende l’idea di un partito in cui sono venute a mancare le regole della convivenza interna, nonché il rispetto reciproco. La commissione Antimafia non è un tribunale di giustizia al di sopra di ogni sospetto, ma un organo politico che come tale agisce. Stavolta viene usata per colpire il bersaglio grosso a poche ore dal voto. Si voleva dimostrare che Renzi è «come Berlusconi»: moralmente indifferente alla personalità dei candidati, pronto ad attaccare le istituzioni che lo hanno smascherato. E Renzi ha reagito proprio «come Berlusconi», dicono ora tutti gli avversari del premier-segretario. Voleva i voti dell’opinione di destra? Ci sta provando, ma si trasforma egli stesso nel nuovo Berlusconi.
Ecco il teorema che Rosy Bindi ha inteso dimostrare; immolando se stessa e la sua credibilità (le liste di proscrizione non sono state votate, appaiono come una forzatura della presidente), pur di fermare l’ex sindaco di Firenze. Il colpo senza dubbio è andato a segno perché quello delle liste dei candidati non è il punto di forza del premier. In Campania la questione morale, se vogliamo usare questo termine, è stata aggirata, cedendo a vecchie logiche feudali. Renzi si nasconde dietro il meccanismo delle primarie, quasi si trattasse di uno strumento politico posto al di sopra della volontà del leader. È un argomento debole dietro il quale il presidente del Consiglio nasconde il proprio imbarazzo, nonché l’ira per essere stato messo in grave difficoltà alla vigilia del voto.
Eppure Renzi deve biasimare solo se stesso se la commissione Antimafia ha avuto abbastanza materiale per ordire la trappola. È lui che ha lasciato fare, permettendo che emergessero candidati sbagliati, o addirittura ineleggibili, e rinunciando a mandare avanti il programma di rinnovamento della sinistra. Programma che è servito a Roma solo per decapitare la vecchia guardia ex comunista — e in qualche caso ex democristiana — del Pd.
Può darsi che il polverone di ieri non danneggi più di tanto De Luca. Qualcuno dice che l’attacco giustizialista finirà per portargli voti, date le strane logiche territoriali. Di fatto però l’imboscata due giorni prima del voto potrebbe sconvolgere le previsioni. I Cinque Stelle sono sempre pronti a ricavare il massimo vantaggio dalle risse fra i maggiori partiti. Difatti una sorpresa grillina non può essere negata a priori. Se accadesse, la Campania è la candidata numero uno a ospitarla. Sarebbe una sconfitta pesante per Renzi e per quella parte del Pd, numerosa, che non ha dichiarato guerra al suo premier. Certo, se la perdita di slancio avesse riflessi anche altrove, la Liguria — dove tutto è in bilico — potrebbe riceverne dei danni. Lo spettro del 4 a 3 non è stato debellato. E la lista Bindi è un colpo basso che nemmeno lo scaltro premier aveva messo nel conto.
Repubblica 30.5.15
I renziani: il nemico in casa
Nel Pd è l’ora dei veleni. Bersani: persa la bussola Torna il rischio scissione
Ma è gelo anche su Guerini. Cuperlo: a 48 ore dal voto non si fa così
“La Bindi ci porta indietro di secoli, quando i processi si facevano nelle piazze aizzando la folla”
di G. C.


ROMA «Si sta perdendo la bussola della democrazia, qui si sta sbandando... ora finisce che danno la colpa all’Antimafia». Pier Luigi Bersani, l’ex segretario dem, è in allarme. Ha telefonato a Rosy Bindi per esprimerle il suo sostegno. Lo scontro nel Pd non è mai stato così aspro. E torna a soffiare forte il vento della scissione. Lo scambio d’accuse ha strascichi persino nei comizi che avrebbero dovuto vedere tutti renziani e sinistra dem, maggioranza e minoranza del partito - remare nella stessa direzione per portare a casa il migliore risultato alle regionali. La “bomba” De Luca, sganciata dalla presidente dell’Antimafia, Rosy Bindi alla vigilia del voto di domani, fa volare gli stracci. Nessuno è al riparo.
Neppure Lorenzo Guerini, il vice segretario, su cui piove la vecchia accusa di non avere saputo sminare in tempo il “caso Campania”, evitando che «Vincenzo o’sceriffo », l’ex sindaco di Salerno su cui pendevano tante controindicazioni, si candidasse alle primarie. Primarie che poi ha stravinto e non c’è stato modo di fermarlo. Guerini rischia il posto di vice? Nelle stesse file renziane il mantra è: «Non si doveva arrivare a questo». La Bindi è il bersaglio, «l’avversario in casa». Però il vice segretario è accusato di avere avuto poco polso. Guerini ha replicato: «Sono stato all’inizio anch’io poco convinto sulla candidatura di De Luca per via della legge Severino, è risaputo. Però in questi mesi sono passato dalle perplessità alla solidarietà completa».
È il tempo delle accuse nel Pd. Una catena di errori, per la sinistra dem; per i renziani «Bindi ha usato l’Antimafia per vendette di partito». Dopo le regionali arriverà la resa dei conti. La minoranza del partito l’annuncia e difende Bindi. Così come Nichi Vendola, il leader di Sel («Contro la Bindi, squadrismo puro»)e Pippo Civati, che ha da poco lasciato il Pd. Contro la presidente dell’Antimafia si è scatenata una pioggia di accuse. La attacca il presidente del partito, Matteo Orfini: «È incredibile l’iniziativa della Bindi dal punto di vista istituzionale, giuridico e anche culturale: riporta ai tempi in cui i processi si facevano in piazza aizzando le folle». Chi la incolpa di avere violato la Costituzione (il renziano Ernesto Carbone) e chi denuncia «la barbarie politica, perché non si annunciano gli impresentabili a 24 ore dal voto» (il capogruppo al Senato, Luigi Zanda). Sul tempismo è critico anche Gianni Cuperlo, il leader di Sinistradem, ed è l’unico appunto che muove a Bindi: «A 48 ore dal voto, non si fa così. Ma il clima è intollerabile l’attacco a Bindi, rovesciare su di lei le accuse è sbagliato. La democrazia - ricorda - ha dei fondamenti che vanno tutelati sempre. Il garantismo è un valore di civiltà. I processi si fanno nei tribunali. I cittadini sono chiamati a valutare persone e programmi ». Stefano Fassina, un passo fuori dal partito, non ci sta e parla di «insulti ignobili alla Bindi». Roberto Esposito invita a «una separazione non consensuale» nel Pd, tra la maggioranza e i dissidenti.
A Renzi è indirizzato un documento di ex civatiani, che non hanno condiviso la scelta di Civati di lasciare il Pd. Vogliono un Pd di sinistra, più ulivista e che si chiarisce le idee ma che resti unito: «Non ci rassegniamo all’idea che l’entusiasmo e la speranza che il Pd ha saputo suscitare nel popolo del centrosinistra vadano smarriti. La fatica del confronto non ci ha stancati e non ci arrendiamo all’idea che di fronte alle divergenze non ci sia altra strada che l’abbandono o la rottura». Quindi non vogliono rompere, però neppure soccombere. Lo firmano in tanti, tra cui Sandra Zampa, deputato e portavoce di Prodi, Lucrezia Ricchiuti, senatrice in dissenso sulle politiche renziane, Davide Mattiello, responsabili di circoli, eurodeputati come Daniele Viotti con un gruppo di dem piemontesi, Silvia Prodi. «Su De Luca, bisognava fermarsi prima. Nel partito ci vuole una discussione approfondita », insiste Zampa. Tra pochi giorni riunione al Nazareno.