giovedì 17 maggio 2018

Il Sole 24 Ore 17.5.18
Unicef
Gaza: oltre mille bambini feriti a Gaza


«Dal 30 marzo, oltre mille bambini sono rimasti feriti a causa delle violenze nella striscia di Gaza. Molte di queste lesioni sono gravi e potrebbero cambiare la loro vita, tra cui le amputazioni». Lo sottolinea in una nota l'Unicef aggiungendo di aver fornito assieme ai suoi partner due camion con medicinali e attrezzature per interventi d’urgenza, sufficienti a soddisfare i bisogni di circa 70mila persone. L’Unicef evidenzia inoltre come si sia indebolito il sistema sanitario della striscia di Gaza, che viene messo a dura prova da gravi interruzioni di corrente e carenza di carburante. «Le strutture sanitarie - scrive l’Unicef - si stanno sgretolando sotto la pressione delle numerose vittime ferite nelle violenze più recenti.

il manifesto 17.5.18
Karl Marx, laboratori politici per il presente
KARL MARX. In occasione del bicentenario, percorso di letture sul pensatore di Treviri
Anders Sune Berg, «Untitled Carrier» (2006)
di Benedetto Vecchi


Una ricorrenza iniziata in sordina. Alcuni articoli diffusi in Rete, l’annuncio di prossime uscite da parte di alcune case editrici, notizie frammentarie sullo stato dell’arte per quanto riguarda le nuove traduzioni ed edizioni delle sue opere. Ma in occasione del primo maggio il ritmo degli interventi sulla sua eredità è diventato frenetico. Difficile, a questo punto, censire tutti i testi, saggi, libri e articoli dedicati fin qui al bicentenario della nascita di Karl Marx e altrettanto impossibile è segnalare gli annunci per la seconda parte del 2018. Va però ricordato che in Italia il filosofo di Treviri è stato festeggiato in anteprima ad aprile con la proiezioni del film del regista haitiano Raoul Peck dedicato all’«esilio» prima parigino e successivamente belga dell’autore de Il Capitale durante il quale Marx ha scritto saggi rilevanti come Miseria della filosofia e quello firmato con Engels, ma dalla elaborazione corale, collettiva passato alla storia come Il manifesto del partito comunista.
IL TESTO che con radicalità si pone la domanda sull’attualità dell’opera marxiana e che va dunque segnalato è quello della filosofa americana Wendy Brown che ha caratterizzato il suo percorso teorico nell’analisi della crisi dei sistemi politici liberali a partire da una prospettiva femminista. Scritto tre anni fa per la rivista «Dissent» (www.dissentmagazine.org/article/marxism-for-tomorrow-wendy-brown) all’interno di un numero speciale sulle prospettive presenti e future di una sinistra e riproposto agli inizi di maggio propone un ritratto di Marx come autore imprescindibile per comprendere la natura di classe del potere politico nel capitalismo maturo e per mettere a fuoco che la produzione della ricchezza è basata sullo sfruttamento del lavoro. E tuttavia Wendy Brown non esita ad affermare che l’opera marxiana non riesce a svelare l’arcano dell’«era della finanziarizzazione». Questo non significa però gettare alle ortiche Marx. Piuttosto, propone la filosofa americana, si tratta di riaprire il laboratorio marxiano frettolosamente chiuso durante gli anni dell’egemonia neoliberista e di colmare le assenze e i limiti di un’opera maturata duecento anni fa e che non poteva certo prevedere gli attuali sviluppi del capitalismo.
Un Marx, quello di Wendy Brown, che non ha dunque nulla di profetico. Semmai è un filosofo senza il quale è difficile, se non impossibile orientarsi in un mondo certo complesso ma che non cancella, bensì accentua le disuguaglianze sociali e di potere. Dunque un autore da leggere e rileggere al di là della miseria rappresentata dalla sua demonizzazione. È questa la stessa «metodologia» – leggere Marx oltre la polemica politica corrente – che muove il volume di Jonathan Wolff, un altro filosofo, questa volta però inglese, che insegna alla Oxford University.
IL SAGGIO, da poco pubblicato dalla casa editrice Il Mulino, può essere considerato espressione del cosiddetto marxismo analitico anglosassone così chiamato perché che unisce le tesi di Marx sullo sfruttamento alla riflessione liberal sulla forma stato capitalista. Il libro, dal titolo Perché leggere Marx (pp. 120, euro 12) è un compendio dell’opera marxiana pensato per studenti e lettori che poco sanno chi era e cosa ha scritto Marx. Vengono così illustrati i concetti di classe sociale, lavoro, plusvalore, evidenziandone l’attualità nella spiegazione di come funziona il capitalismo.
Wolff dichiara sin dall’introduzione i suoi timori che le lezioni preparatorie a questo testo incontrassero l’indifferenza dei suoi studenti a causa della frequentazione facoltative, cioè svincolate dal corso universitario. Sono ormai vent’anni che il docente inglese organizza seminari su Marx e il numero degli studenti è aumentato nel tempo nonostante si siano svolti nel pieno della controrivoluzione neoliberista che ha visto l’egemonia culturale del partito conservatore e il tentativo del New Labour di cancellare la sua tradizione politica socialista.
Il saggio di Wolff attinge esplicitamente alla tradizione laburista inglese, testimoniata dall’omaggio che l’autore fa allo storico delle idee Jerry Cohen, il capostipite proprio del marxismo analitico inglese. Quasi inesistenti, invece, i riferimenti alla new left degli anni Sessanta e Settanta, al decano del marxismo inglese Eric J. E. Hobsbawm, mentre sono significativamente citati i libri e le biografie di Marx maturati nel marxismo italiano vicino al Pci.
Chi invece propone una lettura genealogica dell’opera marxiana è la filosofa ungherese Agnes Heller con il libro, da poco pubblicato da Castelvecchi, Marx. Un filosofo ebreo-tedesco (pp. 230, euro 22). Nella descrizione della costellazione culturale del filosofo di Treviri, le sue origini ebraiche di Marx sono propedeutiche a mettere in evidenza la dimensione messianica, profetica della sua critica dell’economica politica, cioè quell’elemento indispensabile affinché, come hanno sostenuto Walter Benjamin e Ernst Bloch, il materialismo storico possa sviluppare una filosofia della Storia alternativa a quella dominante. Ma gran parte di questi saggi, scritti quando l’allieva di Gyorgy Lukacs non aveva ancora preso le distanze dal marxismo, approfondiscono non tanto la necessità di uno spirito dell’utopia o di un messianesimo rivoluzionario, bensì i temi che hanno reso Agnes Heller un’autrice nota fuori dai confini ungheresi.
LA TEORIA DEI BISOGNI, ovviamente, ma anche lo sviluppo di una antropologia filosofica che prenda l’avvio da una fenomenologia dei sentimenti. Ne emerge una visione dell’opera fortemente ancorata al panorama filosofico e culturale degli anni Settanta e Ottanta, dove Marx viene salvato dall’oblio per la sua attitudine utopica. Insomma, un classico della filosofia ottocentesca da leggere ma che ha ben poco da dire sul presente, mentre fallimentari sono stati tutti i tentativi di tradurre operativamente la sua critica al capitalismo.
Più spregiudicata, e utile, è invece la riproposizione di due classici di Karl Marx. La prima è della casa editrice Feltrinelli – l’editore milanese ha recentemente pubblicato un importante saggio di David Harvey, Marx e la follia del capitale (recensito dell’edizione del manifesto del 18/04/2018) – che sta per mandare in libreria la ristampa dei Manoscritti economico-filosofici del ’44 curati da Enrico Donaggio e Peter Kammerer e corredati da alcuni materiali poco conosciuti in Italia che Marx scrisse sulle tesi di James Mill e che i due curatori ritengono utili per comprendere cosa il filosofo intendesse per un lavoro che superasse l’alienazione che lo contraddistingue nella sua forma salariata. ù
LA SECONDA riproposta riguarda invece L’Introduzione alla critica dell’economia politica del ’57 della casa editrice Shake di Milano. Un libro importante, sia per l’introduzione che ricostruisce la rilevanza di queste pagine per comprendere il metodo usato da Marx nella sua critica all’economia politica che per i materiali che ricostruiscono la ricezione, travagliata, di questo scritto marxiano firmati da Sergio Bologna, Raf Valvola Scelsi, Franz Mehring e Eval’d Vasil’evic Il’enkov, lo studioso marxista che per primo curò la diffusione di queste pagine marxiane.
Due volumi che hanno l’obiettivo di rendere attuale l’opera marxiana. In attesa delle pubblicazioni annunciate da molte altre case editrici, va segnalata la nuova edizione del Manifesto comunista per Ponte alle Grazie (pp. 350, euro 19, 80) che si compone, oltre del testo di Marx ed Engels, di una lettura interlineare del manifesto svolta dal collettivo c17 e dai saggi di Etienne Balibar, Sandro Mezzadra, Slavoj Zizek, Veronica Gago. Alisa Del Re, Silvia Federici, Michael Hardt, Pierre Dardot, Christian Laval, Toni Negri (il manifesto del 03/05/2018 ha anticipato il brano di Etienne Balibar). Il volume manifesta la forte intenzionalità teorica-politica non solo per l’attualizzazione della riflessione marxiana, ma per aprire collettivamente un vero e proprio laboratorio marxiano che eviti le trappole del passato – il Marx maturo contrapposto al Marx giovane, la scientificità o meno dell’opera marxiana, la tenuta o meno della teoria del valore/lavoro -, approfondire la critica dell’economia politica nell’era del capitalismo cognitivo, della globalizzazione e della crisi dello stato-nazione.
Come argomenta il sito di Dinamo Press (www.dinamopress.it/news/marx-finalmente/) nel presentare il volume non si tratta di ribadire la fedeltà a Marx o meno, ma di mettere in opera la cassetta degli attrezzi marxiana. Cioè, come sostiene Paolo Virno, di ribadire la piena leggibilità di Marx, oltre e in buona parte contro il marxismo consolidato dalla tradizione del movimento operaio.

il manifesto 17.5.18
Se la responsabilità del filosofo si fa politica all’interno della stessa vita
Scaffale. «Da Dentro» di Sandro Chignola, per DeriveApprodi. Una raccolta di saggi che cercano di dare risposta ai problemi che procedono dal modo in cui l’accumulazione capitalista estrae valore ovunque dall’esistenza
di Toni Negri


Che cosa significa Da Dentro. Biopolitica, bioeconomia, Italian Theory (Sandro Chignola, Deriveapprodi, pp.190, euro 17)? Questo titolo, ci dice Chignola, «rivendica una doppia internità. Quella a un mondo che un ‘fuori’ non lo ha più, e quella a una linea di pensiero, inseparabilmente teorica e politica assieme, che è stata chiamata post-operaista, il motore della quale è sempre stata l’assoluta consapevolezza che è nel campo di immanenza del reale, e non nella rarefatta atmosfera della chiacchiera più o meno filosofica, che ci si muove – assumendosi la piena responsabilità di ciò che si scrive e di ciò che si fa».
QUANDO I DISPOSITIVI dell’accumulazione capitalista si sono estesi sull’intera superficie del globo, estraendo valore dalla vita, e i processi di unificazione del mondo, diretti alla sua mercificazione, hanno ormai ibridato culture e tradizioni di pensiero, è «da dentro» che la critica deve svolgersi, recuperando un sguardo di immanenza e disponendolo alla nascita della critica e della resistenza. È su questa soglia che, di conseguenza, Chignola pone il punto di trasformazione della filosofia politica: il farsi politico della responsabilità del filosofo.
I nove saggi che contiene questo volumetto vogliono così dare una risposta politica a una serie di problemi, che procedono dalle nuove condizioni (totalità dell’investimento capitalistico del mondo, responsabilità etica e soggettivazione politica). E, da principio, Chignola sottolinea che le problematiche qui toccate (talora raggruppate sotto l’etichetta Italian Theory) hanno una dimensione che va ben oltre ogni limite nazionale o locale. Non è un caso se, appunto, l’importanza di questo libro sta nel fatto che esso rende conto dello spostamento del dibattito filosofico politico a cavallo del XX e XXI secolo: uno spostamento che è divenuto una radicale differenza, segnalata da tre passaggi. Chi abbia vissuto l’ultimo mezzo secolo della discussione sulla natura dello Stato e sulla crisi della democrazia, non potrà che confermare questa osservazione.
IL PRIMO PUNTO sul quale questo spostamento è visibile anche allo spettatore più disattento, è la fine del riferimento, nell’analisi e nella narrazione della natura dello Stato, a posizioni quali quelle rappresentate da Carl Schmitt. Contro ogni trascendenza della sovranità si levano infatti, nella contemporaneità, i dispositivi dell’immanenza: la natura del potere è strappata a ogni possibile fondamento teologico-politico e concepita nella pluralità dei rapporti di forza sociali. La linea che va da Deleuze a Spinoza è qui assunta nella polemica contro il concetto schmittiano del politico. Con Foucault, questa riduzione del sistema dei saperi-poteri dello Stato sul terreno della biopolitica definisce un processo del potere che «investendo integralmente la vita, mostra la vita stessa come potere». Meglio detto, dall’altro lato, «la vita non viene mai integrata in modo esaustivo nelle tecniche che la dominano e la gestiscono da parte del potere». Con le parole esatte di Foucault, «essa sfugge loro senza posa».
Il secondo punto, riguarda l’analisi weberiana della razionalità moderna, nella fattispecie, amministrativa e statuale. Anche questa è prospettiva ormai caduca: l’introduzione delle tematiche della «governamentalità» ha distrutto la bella immagine di una legalità includente o comunque accordata alla legittimità. Su questo terreno, gli studi costituzionali e politici italiani sono stati per un buon secolo costretti dal pensiero dominante, fra Croce e Bobbio.
LE ANALISI di Deleuze e Foucault hanno disarticolato queste antiche forme della normazione e della vicenda amministrativa dello «Stato di diritto». In un saggio esemplare della raccolta (In the shadow of the State. Governance, governamentalità, governo), questo mutamento dell’orizzonte teorico e questa condizionalità nell’analisi dello «Stato di diritto», vengono messi radicalmente in discussione. E nei saggi – riprende altrove Chignola – le immagini della «talpa» e del «serpente» con tanto vigore segnalano una transizione fra diverse formazioni giuridiche che corrispondono alla profonda mutazione del capitalismo.
Il terzo punto – ed è il più forte – riguarda le concezioni metafisiche che dematerializzano il potere allo scopo di svuotare, con esso, ogni potenza di resistenza e di rivoluzione. Da Heidegger ad Agamben si sono susseguiti questi tentativi. Qui la vita, quella vita che è stata riconquistata come potenza «dentro» la distruzione del teologico-politico, è invece pensata «come ostaggio del dispositivo di bando e come irretita dal dispositivo sovrano della Legge, e non come produttività, divenire, variazione». In questo modo, si pensa alla biopolitica come «cattura» e non come un processo di soggettivazione eccedente i biopoteri che la globalizzazione ha formato. Va a questo proposito sottolineata la rilevanza di un altro saggio qui contenuto: Sul dispositivo. Foucault, Agamben, Deleuze.
È QUESTA, UNA LETTURA del concetto di «dispositivo» estremamente importante, perché mette in azione, sul limite dell’estendersi dei processi di cattura della vita e di messa a valore della cooperazione sociale, la soggettivazione: è nel dispositivo che si distende lo sguardo, dall’oppressione attuale alla resistenza futura, in un continuum di rottura – che rende appunto politica la critica.
Speriamo di aver chiarito quanto sia «spietato» il procedere critico di Chignola. Non voglio qui fantasticare su cosa avrebbe detto un filosofo politico di prima del ’68 dinnanzi a questo ritratto d’epoca – e dello Stato – che Chignola ci propone. Dire che lo avrebbe indignato è poco. Avrebbe probabilmente aggiunto, in un’ipotetica dell’irrealtà, che se quanto affermato da Chignola fosse avvenuto, la «grande politica» sarebbe estinta… intendendo con ciò cosa impossibile.
CIÒ È INVECE AVVENUTO: la fine dell’autonomia dello Stato e di tutti i concetti che lo facevano bello (popolo, nazione, sovranità ecc.). Eppure, di quelli antichi, un concetto è rimasto vivo (certo, assai modificato): quello di classe e di lotta di classe, perché è concetto di soggettivazione (di movimento) nel rapporto antagonistico aperto nel potere.
Last but not least, la sconfinata letteratura che Chignola legge e interpreta sta a mostrare l’estrema utilità – oltre ovviamente al valore – di questo volume.

il manifesto 17.5.18
«Dall’Iran alla Corea del Nord, uno scacchiere unico per Israele»
Venti di guerra. L'esperto di intelligence israeliano Ely Karmon spiega strategia e obiettivi di un possibile conflitto armato. E l’Unione europea per salvare gli affari con Teheran è pronta ad attuare una clausola anti-Usa nata per Cuba
di Farian Sabahi

L’Ue non vuole perdere miliardi di euro di interscambio con l’Iran per la decisione dell’amministrazione americana di mandare a monte l’accordo sul nucleare. Per questo, è pronta ad attuare lo statuto di blocco che impedisce l’applicazione nell’Unione di sanzioni decise da Paesi terzi. Approvato nel 1996 per contrastare le sanzioni statunitensi contro le aziende europee che volessero fare affari con Cuba, Iran e Libia e finora mai utilizzato, lo statuto prevede risarcimenti per le aziende che dovessero essere colpite dalle misure a stelle e strisce. Della questione i leader europei parleranno oggi in occasione del vertice di Sofia con i capi di Stato e di governo dei Balcani occidentali.
Trump non solo mette in difficoltà l’Europa, ma si fa beffe del diritto internazionale. Non è la prima volta, basti pensare alla strage di civili in Yemen, dove il Pentagono (ma non solo) fornisce aiuto militare e intelligence ai sauditi in una guerra che non ha l’avallo delle Nazioni Unite. Se Trump rischia di mandare in fumo il business europeo con Teheran, è perché vuole smontare l’eredità del suo predecessore Obama e mantenere fede alle promesse fatte agli evangelisti (la sua base elettorale) e alla lobby ebraica (il cui obiettivo è mettere in ginocchio l’economia iraniana).
Dopotutto, «Israele è in guerra con l’Iran dalla rivoluzione nel 1979, è tutta colpa della dottrina khomeinista», commenta lo studioso israeliano Ely Karmon dell’International Institute for Counter-Terrorism di Herzlyia.
La guerra è sempre stata per procura: «Teheran ha usato gli Hezbollah libanesi che, in seguito alla guerra civile siriana, si sono trasformati in un piccolo esercito dotato di carri armati americani (in dotazione all’esercito libanese), droni, artiglieria e 120 mila missili in grado di raggiungere tutto il territorio di Israele».
Nella strategia iraniana, «fino a poco tempo fa Hezbollah rappresentava una forza sul terreno, provvista di missili da utilizzare in caso di attacco israeliano o americano ai siti nucleari». Dopo la vittoria di Assad in Siria grazie all’aiuto di Teheran, delle milizie libanesi e dell’intervento aereo russo, ora «gli ayatollah vogliono trasformare la Siria in una piattaforma strategica (con missili, aerei e forse anche una base navale) per minacciare le Alture del Golan».
Queste ultime, piccolo inciso, sono occupate da Israele dal 1967 e, secondo una risoluzione dell’Onu mai rispettata da Israele e mai fatta rispettare dalla comunità internazionale, dovrebbero tornare sotto la sovranità di Damasco. Per evitare che gli ayatollah mettano in atto il loro piano – continua Karmon – «nel gennaio 2015 Israele aveva bombardato le infrastrutture iraniane e ucciso il generale iraniano e il comandante degli Hezbollah che se ne stavano occupando».
Condividendo un’opinione dell’Idf – l’esercito israeliano – e «tenuto conto del lancio di 20-30 missili iraniani contro Israele», ora Karmon teme possano vendicarsi: «Ci sono diverse possibilità di atti terroristici in Israele e contro obiettivi israeliani nel mondo. Potrebbero essere perpetrati da una cellula iraniana, da Hezbollah o da terze organizzazioni». Detto questo, l’Idf non sembra usare particolari cautele per non irritare l’Iran. Al contrario, «dopo che si è intensificata la presenza iraniana sul confine meridionale siriano, coinvolgendo milizie irachene e sciite, Israele ha deciso di distruggere le forze di Teheran e dei suoi alleati. Anche perché abbiamo capito che non si sarebbero fatti crucci a mettere a rischio la sicurezza del Libano per raggiungere i propri obiettivi. È diventato assolutamente necessario prenderli di mira».
All’orizzonte, solo venti di guerra. Anche perché, conclude Karmon, «se Trump riuscirà a denuclearizzare la Corea del Nord, l’Iran sarà obbligato ad accantonare le mire regionali». Di pari passo, Israele diventa più aggressivo: «Anziché intimidire il Libano, abbiamo deciso di scoraggiare l’Iran minacciando di attaccarlo. Se saremo colpiti, la nostra aviazione bombarderà le città iraniane. Se ci fosse la guerra, l’Arabia Saudita potrebbe lasciarci attraversare il suo spazio aereo. E se l’Iran ci attaccasse, la comunità internazionale non avrebbe nulla da ridire circa il nostro diritto di difenderci».

il manifesto 17.5.18
Gaza, Ramadan di sangue
Reportage. Il mese più importante per i musulmani arriva dopo la strage di lunedì e trova una popolazione sempre più povera che non potrà festeggiare. Israele continua a rifiutare ogni responsabilità e rivolge nuove accuse ad Hamas
di Michele Giorgio


GAZA Nel mercato popolare di Jabaliya i banchi dei commercianti sono colmi di merci. ‎Verdure, dolci, pesci, giocattoli, frutta fresca e secca. Il clima però è cupo. Si sono ‎appena conclusi i funerali delle decine di palestinesi uccisi lunedì dal fuoco dei ‎tiratori scelti israeliani e i prossimi giorni potrebbero portare altri lutti e dolori alla ‎gente di Gaza resta stretta nel blocco israeliano. Oggi comincia il Ramadan e ogni ‎famiglia vorrebbe acquistare quanto serve per l’iftar, il pasto serale che interrompe ‎il digiuno dei musulmani in questo mese. Rafiq Abu Saad si aggira tra i banchi ‎colorati ma si limita ad osservare. ‎«Non ho soldi» ci dice ‎«da Ramallah non mi ‎versano più lo stipendio e sono indebitato con amici e parenti». Rafiq è uno delle ‎migliaia di palestinesi dipendenti dell’Autorità Nazionale vittime dello scontro tra il ‎presidente Abu Mazen in Cisgiordania e il movimento islamico Hamas. Scontro che ‎ha un impatto diretto sulla popolazione di Gaza e che si aggiunge al blocco ‎praticato da Israele. Il governo di Ramallah ha congelato i versamenti nelle banche ‎di Gaza convinto di mettere la popolazione contro gli islamisti decisi a non cedere il ‎controllo di Gaza. ‎«Lo stipendio non lo ricevono neanche i dipendenti del governo ‎di Hamas perché (il movimento islamico) ha le casse vuote. Perciò nessuno ha a ‎soldi per il Ramadan», aggiunge Rafiq.
 A Gaza è tutto fermo, l’economia è paralizzata, i commercianti hanno merci che ‎venderanno con grande fatica e difficilmente potranno pagare i fornitori. Decine di ‎migliaia di famiglie vivono indebitandosi e grazie agli aiuti umanitari. Dall’altra ‎parte delle linee di demarcazione decide tutto Israele, su cosa e chi entra o esce dalla ‎Striscia. E le proteste popolari contro il blocco sono disperse con il fuoco dei ‎tiratori scelti. Per Israele e per gli Stati uniti la responsabilità è solo di Hamas e gli ‎oltre cento palestinesi uccisi dai cecchini sulle barriere di demarcazione in un mese ‎e mezzo, erano in buona parte dei “terroristi”. ‎«Hamas è un mucchio di cannibali ‎che usa i bambini come munizioni‎…Cosa sarebbe successo se quella marmaglia ‎fosse riuscita a violare la sovranità e irrompere in una sola comunità (ebraica)? I ‎nostri soldati hanno agito in conformità con le norme etiche», ha commentato ieri il ‎ministro della difesa israeliano Liebermam rispondendo alle critiche e condanne ‎internazionali piovute sul governo Netanyahu dopo la strage di lunedì. Israele ‎respinge l’accusa di aver reso insostenibile, con la chiusura, da oltre 11 anni, dei ‎valichi e le forti restrizioni ai movimenti delle persone, la condizione di oltre due ‎milioni di civili a Gaza. Il Cogat, il suo coordimento militare per gli affari civili nei ‎territori occupati, ripete nella Striscia non manca nulla di essenziale, dai farmaci al ‎cibo. E punta il dito contro gli attivisti palestinesi che ieri hanno respinto, in segno ‎di protesta per la strage di lunedì, due autocarri con aiuti israeliani destinati agli ‎ospedali della Striscia da giorni in stato d’emergenza per il numero di feriti gravi.
Non condivide le rassicurazioni israeliane l’Ong internazionale Oxfam che ieri, ‎attraverso il suo portavoce Paolo Pezzati, ieri ha avvertito che l’ostacolo più serio al ‎miglioramento delle condizioni di vita a Gaza resta la chiusura dei valichi, in ‎particolare quello commerciale di Kerem Shalom, non ancora operativo dopo i ‎danni subiti durante le proteste palestinesi di alcuni giorni fa. ‎«Andando avanti così ‎‎– ha detto Pezzati – la popolazione rimarrà presto senza carburante, vitale per ‎l’irrigazione dei pochi campi rimasti, che possono permettere alla popolazione di ‎non morire di fame, così come per la desalinizzazione dell’acqua marina, da cui ‎dipende l’accesso all’acqua potabile del 90% della popolazione di Gaza‎». La ‎situazione umanitaria è disperata, ha sottolineato Pennati, ‎«quasi la metà della ‎popolazione non ha cibo a sufficienza, il tasso di disoccupazione è arrivato oltre il ‎‎40% e circa 23.550 persone ancora senza casa dalla guerra del 2014‎».‎
Non è destinato a portare particolare sollievo la decisione del Cairo di tenere ‎aperto, ancora per qualche giorno il valico di Rafah, a sud di Gaza, in modo da ‎consentire anche il trasferimento in ospedali egiziani di alcuni dei palestinesi feriti ‎dal fuoco dei soldati israeliani in questi ultimi giorni. ‎«Quel transito dovrebbe ‎restare aperto, sempre» protesta Khalil Shahin, vice direttore del Centro per i diritti ‎umani, ‎«solo così potrà dare un aiuto importante alla popolazione di Gaza, di fatto ‎tenuta prigioniera». Tuttavia, aggiunge Shahin, «è Israele, la potenza occupante, che ‎più di ogni altro soggetto coinvolto deve dare la libertà di movimento alla ‎popolazione occupata. Lo sancisce il diritto internazionale».‎

il manifesto 17.5.18
L’esperimento americano fa i conti con i propri fantasmi
«Trumpland», di Luca Celada per manifestolibri
di Guido Caldiron

L’immagine è semplice nella sua drammaticità. Un interno di famiglia che annuncia la possibile catastrofe collettiva. Bambini, istruiti da genitori infervorati, che bruciano sghignazzando la maglia con il nome di Colin Kaepernick, una stella del football già quarterback dei San Francisco 49ers.
KAEPERNICK ha lanciato una nuova forma di protesta, poi ripresa da decine di altri sportivi: invece di alzarsi in piedi e portare la mano al cuore al suono dell’inno nazionale durante l’omaggio alla bandiera, rito con cui si aprono le partite, si è inginocchiato per ricordare le vittime delle violenze poliziesche, spiegando di non sentirsi orgoglioso «di un paese che opprime i neri e la gente di colore». Dopo la sua elezione, Donald Trump si è chiesto pubblicamente se non fosse il caso di cacciare dalla Nfl, la lega professionisti, certi «figli di puttana di giocatori che mancano di rispetto alla nostra bandiera», mentre in rete sono diventati virali i «piccoli roghi» di magliette: «l’immagine di bambini a scuola di odio che racchiude in un fotogramma il triste autunno trumpista». Quale che sia il destino dell’ attuale amministrazione – che potrebbe dipendere dai progressi nell’inchiesta sul «russiagate» più che dal voto di mid-term -, è già certo che «l’esperimento americano rimarrà per sempre segnato dall’aver prodotto un Presidente come Trump».
Nel definire i contorni dell’«America nazional-populista» nel suo Trumpland (manifestolibri, pp. 128, euro 15), Luca Celada non sottovaluta le scelte scellerate in politica internazionale, come sul tema dell’energia e dell’ambiente, assunte nell’ultimo anno e mezzo dalla Casa Bianca, ma concentra la sua attenzione su cosa il fenomeno Trump ci dica degli Stati Uniti, dei conflitti e delle fratture che ne hanno caratterizzato la storia, della natura complessa e contraddittoria, ma anche evidentemente straordinaria nella sua unicità, dell’esperienza americana.
L’INDAGINE sul «citizen Trump», sui contorni e il significato della sua vittoria e sul profilo della sua presidenza, si traduce così in una riflessione ampia e coinvolgente che ha il timbro del reportage pur avendo il respiro del saggio storico.
Ben al di là della «rivoluzione conservatrice» di Nixon e Reagan, alla cui eredità non soltanto simbolica ha comunque attinto, oltre i confini del governo dei super-ricchi di George W. Bush, malgrado abbia ricondotto le banche d’affari responsabili della peggiore crisi dal ’29 alla guida del paese, con Trump l’immaginario del nuovo suprematismo bianco, intriso della paranoia del «declino», si è mescolato con un progetto di ristrutturazione sociale senza precedenti. Prima con il Tax Plan, la riforma fiscale che produce enormi vantaggi per l’élite economica, e, a cascata, grazie ad una serie di tagli previsti all’intervento pubblico in materia sociale, ad essere rimessa in discussione sembra essere la stessa eredità, già malconcia, del New Deal rooseveltiano che ha definito per molti versi l’America contemporanea.
IN QUESTO SENSO, il «trumpismo» potrebbe rivelarsi tutt’altro che un epifenomeno, rimescolando invece in profondità le carte della storia americana. Così, se il razzismo su cui Trump ha puntato fin dalla propria «discesa in campo», quando evocò per la prima volta il «muro» con il Messico, rimanda ad un «implicito progetto eugenetico», quello di estendere il predominio razziale bianco ben oltre il 2044, data entro la quale avverrà il sorpasso delle minoranze sui «bianchi», la «decostruzione amministrativa», annunciata da Steve Bannon, già ideologo trumpiano e alfiere della Alt-right, si traduce in ciò che il New York Times ha definito come «l’abrogazione del patto sociale» americano degli ultimi cento anni.
IL «TIRANNO POPULISTA» che prima di correre per la Casa Bianca ha plasmato la propria immagine pop attraverso il reality The Apprentice, sorta di «esaltazionedell’avidità come stato naturale», sta perciò contribuendo non solo a portare le correnti fasciste americane là dove non erano mai giunte – come se Wallace o Goldwater fossero diventati presidenti negli anni Sessanta, suggerisce Celada -, ma a fare del paese il principale laboratorio politico della nuova destra internazionale. L’inquitante simbolo del nazional-populismo dell’intero Occidente in una terra che fu schiavista ma dove è comunque cresciuto un efficace seppur complesso melting pot.
*
Il volume di Luca Celada sarà presentato oggi pomeriggio alle 18 a Roma, presso l’hub culturale Moby Dick (via Edgardo Ferrati 3), nel quartiere Garbatella.
Con l’autore si confronteranno Ida Dominijanni, giornalista e filosofa, Mattia Diletti, docente di Scienza politica a La Sapienza, studioso del sistema politico Usa e il giornalista Martino Mazzonis, esperto di politica americana che ha seguito la campagna presidenziale del 2016 che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca.

Lo Stato, i partiti
l’illusione di sondare la base
di Sabino Cassese


La trattativa negoziale per la formazione del governo procede tra alti e bassi, e con molte oscillazioni. Era cominciata bene, perché le due parti contraenti avevano rapidamente dismesso le vesti della Piazza, per entrare nel Palazzo. Ora i due migliori perdenti, in assenza di un mandato pieno a uno di loro (la somma di due perdenti non fa necessariamente un vincitore), incontrano le prevedibili difficoltà. Ma mostrano anche di non avere ben chiare tutte le implicazioni della democrazia.
Hanno annunciato di voler sottoporre a consultazione popolare l’alleanza («se c’è un accordo, andrà approvato dalle piazze», secondo il segretario della Lega). È comprensibile: muovono da parti opposte ed hanno elettorati molto diversi. Ma questa consultazione avverrebbe anche con procedure dissimili. La Lega con «gazebo», quindi ascoltando l’opinione di tutti. Il M5S attraverso consultazione «on line» sulla piattaforma Rousseau, tra gli iscritti o gli iscritti «certificati» (quindi tra 500 mila o 120 mila persone, secondo le stime correnti). Ma, da un lato, ci si può chiedere se i pochi 5 Stelle consultati rappresentino l’orientamento degli 11 milioni di italiani che hanno votato a favore del Movimento. Dall’altro, non sono stati annunciati «quorum» di votanti e di favorevoli, e quindi dovremo accontentarci del significato che i vertici delle due forze politiche vorranno dare alla consultazione.
Oltre alla procedura, non è chiaro quali domande verranno poste e quali effetti si vorrà dare alla consultazione. È, ad esempio, possibile sottoporre a consultazione — come è stato dichiarato — la «riformulazione dei trattati europei», che dipende da complesse procedure che riguardano 27 Paesi? Basterebbe un consenso così pronunciato per legittimare le decisioni dei vertici? Infine, questi ultimi farebbero marcia indietro in caso di dissenso, andando poi al Quirinale per annunciare che loro volevano, mentre la loro base non vuole?
Questo va e vieni tra popolo e Parlamento è pieno di equivoci: è frutto di una concezione almeno rudimentale della democrazia e corre il rischio di minare la premessa dell’azione dei delegati alla trattativa, essi stessi scelti dal voto popolare.
Un secondo segno di debolezza sta nel ricorrente riferimento spregiativo ai «non eletti». Ad esempio, il rifiuto delle «inaccettabili interferenze dei non eletti euroburocrati». A parte il fatto che gran parte dei leader europei che si sono espressi sulle vicende italiane hanno alle loro spalle decine di elezioni politiche nazionali nei loro Paesi e una elezione al Parlamento europeo, chi sdegnosamente rifiuta di ascoltare i «non eletti» ignora che i moderni governi democratici non debbono avere soltanto la fiducia del proprio elettorato, ma anche quella dei risparmiatori (che sono in larga misura anche elettori), come ha spiegato molto bene Federico Fubini sul Corriere della Sera di ieri.
Terzo: il «leader» della Lega ha dichiarato il 14 maggio scorso che «se ci rendessimo conto che non siamo in grado di fare quello per cui gli italiani ci hanno votato, non cominciamo neppure». Questa fedeltà al mandato del proprio elettorato è fondata su una premessa, quella di un sistema maggioritario, dove c’è continuità tra maggioranza dell’elettorato-maggioranza parlamentare-governo. Invece, in un sistema parlamentare con formula elettorale prevalentemente pro-porzionale (sulla base di una legge votata dalla Lega), in presenza di quattro forze politiche, nessuna delle quali maggioritaria, è necessaria una intesa di governo, e questa richiede che le parti contraenti ascoltino anche gli elettorati degli altri.
Infine, le due forze politiche impegnate nel tentativo di dare un governo al Paese non hanno ben chiara la distinzione tra Stato e partiti. Un segno della confusione è il «Comitato di conciliazione» previsto dal «Contratto per il governo del cambiamento» reso pubblico il 15 maggio, che prendo come esempio, anche se si tratta di un documento sul quale si sta ancora lavorando. Questo prevede un organo misto partiti-governo-Parlamento, denominato «Comitato di conciliazione», che delibera a maggioranza di due terzi quando «nel corso dell’azione di governo emergano diversità». Un organo di questo tipo (ben diverso da quello, esclusivamente partitico, proposto nella relazione del 20 aprile, voluta dal M5S, sulle convergenze tra i programmi delle forze politiche) assorbirebbe funzioni che la Costituzione assegna al governo e richiederebbe al presidente del Consiglio dei ministri e ai due ministri che vi partecipano di addossarsi gravi responsabilità fuori delle sedi ufficiali.
Lega e M5S hanno intrapreso un difficile percorso per rendere utile il voto del 4 marzo e dare un governo al Paese. Questa strada passa attraverso le regole della democrazia, che non è fatta soltanto di elezioni, ma anche di molti altri elementi (vincoli internazionali, contropoteri, «checks and balances», rispetto dei precedenti, dialogo tra élite e membri della comunità nazionale, sottoposizione al controllo di giudici «non eletti»). Sarebbe utile che le due forze politiche se ne rendessero conto prima di fare proposte incendiarie, e nello stesso tempo impossibili da realizzare .

il manifesto 17.5.18
Istat, record di poveri assoluti: in un anno 261 mila in più
Rapporto annuale. Sfondato il tetto di cinque milioni di persone. «Riformare i centri per l’impiego». Movimento 5 Stelle rilancia il «reddito di cittadinanza» nel «contratto di governo». Analisi delle ragioni che spingono a istituire anche in Italia un sistema di "workfare" alla tedesca. Per l'Istat siamo il "secondo paese più vecchio al mondo": 168,7 anziani ogni 100 giovani. La popolazione totale è diminuita per il terzo anno consecutivo di quasi 100mila persone rispetto al precedente: al 1° gennaio 2018 eravamo 60,5 milioni, con 5,6 milioni di stranieri (8,4%)
di Roberto Ciccarelli


La crescita dell’occupazione trainata dal lavoro precario e a termine ha portato anche all’aumento della povertà assoluta. Nel 2017 ha riguardato poco meno di 1,8 milioni di famiglie. Secondo il rapporto annuale dell’Istat presentato ieri alla Camera. gli individui coinvolti sono circa 5 milioni, con un aumento di 154 mila famiglie e 261 mila individui in più rispetto al 2016. A queste cifre bisogna aggiungere altri 6 milioni. Tante sono «le persone che vorrebbero lavorare» senza riuscirci. Dal punto di vista territoriale, la povertà assoluta aumenta nel Mezzogiorno e nel Nord, mentre scende nel Centro. Ciò ha portato a un balzo delle diseguaglianze economiche. Hanno raggiunto un livello di 6,4 (6,3 nel 2016). È il risultato di un’analisi effettuata a partire dagli indicatori del Benessere equo e sostenibile (Bes) introdotti dal Documento di economia e finanza (Def) 2018.
IL NUOVO RECORD si registra in un paese dove quasi il 90% delle persone alla ricerca di un lavoro si rivolge a « reti informali» dei conoscenti, di amici e parenti. Poi arriva alle agenzie di intermediazione, annunci, università e, infine, ai centri per l’impiego. Da qui la richiesta rivolta alla politica dal presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, che ha chiesto «il rafforzamento dei servizi per l’impiego» considerati come «un elemento cruciale per realizzare politiche attive del lavoro efficaci, anche con riferimento alle misure di contrasto della povertà e dell’esclusione sociale».
IL MOVIMENTO 5 STELLE ha preso la palla al balzo e ha sottolineato le dichiarazioni di Alleva. Nella bozza di «contratto» con la Lega, resa noto ieri, ai centri per l’impiego il prossimo governo destinerà 2 miliardi di euro. Più i 17 miliardi (stima Istat risalente al 2015) per la truffa linguistica del «reddito di cittadinanza» – così è ancora scritto nel documento anche se si tratta di un reddito condizionato all’obbligo di accettare un lavoro. A cosa tende questa rinnovata insistenza sull’istituzione di un «worfare» neoliberista sul modello tedesco («Hartz IV») ? Per i senatori dei Cinque Stelle che hanno commentato a caldo il rapporto Istat, questo sistema sarebbe il modo per arrestare la «svalutazione del lavoro, dei diritti e delle tutele». Sarebbe un’occasione per redistribuire le risorse in un paese dove il «gap» tra ricchi e poveri si allarga. Difficile sostenere questa posizione con un governo «carioca» che con la Flat Tax della Lega tende a premiare la ricchezza, la proprietà e ad aumentare le diseguaglianze. L’ipotesi per cui «un reddito minimo condizionato alla formazione e al reinserimento lavorativo» (così è stato definito propriamente da Pasquale Tridico, ministro del lavoro in pectore dei Cinque Stelle) serva a una redistribuzione si regge sulla vecchia idea che disoccupazione e precarietà siano uno stato momentaneo al termine del quale torneranno a spendere. In realtà è la condizione strutturale in cui si trovano almeno 8 milioni di poveri «relativi» e più di cinque milioni di poveri «assoluti».
QUESTO RAGIONAMENTO si regge sull’ipotesi, tutta da dimostrare, per cui il lavoro intermediato dai centri per l’impiego sia a tempo indeterminato. Per questo il «reddito di cittadinanza» farlocco dovrebbe diminuire fino a estinguersi, stando a dichiarazioni di Di Maio. Considerata la natura precaria della ripresa occupazionale questa è una scommessa rischiosa sulla vita di milioni di persone. Senza contare le incognite legate al prometeico intento di creare un sistema di «workfare» che impiegherà anni per essere creato (se mai sarà creato). Per sostenere un simile scenario di lunga lena i Cinque stelle hanno parlato di investimenti statali in «settori ad alto ritorno occupazionale, il 34% dei quali da destinare al Mezzogiorno». Senza, il reddito di cittadinanza sarebbe una misura monca. Resta da vedere se riusciranno a mobilitare risorse Ue. È un’incognita. Per ora si discute se cambiare i trattati europei o meno.
L’UNICO «CAMBIAMENTO» in vista sul reddito – che non è di base né incondizionato – è quello della monetizzazione della povertà e una messa al lavoro dei poveri per aumentare il tasso di partecipazione al mercato del lavoro. Così inteso il «reddito» è un modo per creare una bolla occupazionale e dire che il Lavoro esiste perché lo dicono le statistiche.
*** «Il secondo paese più vecchio al mondo»
Nel rapporto annuale Istat l’Italia è il paese più vecchio del mondo dopo il Giappone con un’aspettativa di vita di 81 anni per gli uomini e di 85 per le donne e con 170 over 65 ogni 100 bambini tra zero e 14 anni. Una situazione rischiosa per il sistema previdenziale dato che il tasso di occupazione pur in crescita (al 58% nel 2017) resta tra i più bassi in Europa per la più alta precarietà delle donne. La qualità della vita è diseguale. A Bolzano si guadagnano 10 anni (69,3 per gli uomini e 69,4 anni per le donne). Gli uomini della Calabria e le donne della Basilicata 51,7 e 50,6 anni.
*** In 10 anni il lavoro operaio si è terziarizzato
In un decennio la mappa del lavoro è cambiata e il lavoro manuale segna una decisa contrazione: tra il 2008 e il 2017 sono scesi di un milione gli occupati classificati come «operai e artigiani» mentre si contano oltre 860 mila unità in più per le «professioni esecutive nel commercio e nei servizi» in cui rientrano gli impiegati con bassa qualifica. Il lavoro operaio, manuale, industriale non è finito ma si sta trasformando seguendo una tendenza ormai storica verso un’economia terziarizzata e proletarizzata. Lo ha rilevato l’Istat nel rapporto annuale: nell’industria si sono perse 895mila «unità» di lavoro e nei servizi se ne sono guadagnate 810mila.

Il Fatto 17.5.18
La prevalenza di quelli per cui Stato e privato sono uguali
di Marco Palombi


Lo stato dell’arte è questo: “E allora io vado in banca e gli dico di cancellarmi il debito!”. Ieri nei bar, in Parlamento, sui social, navigando il Manzanarre o bagnandosi nel Reno questa freddura è stata ripetuta di continuo. Persino il sito del Sole 24 Ore s’è abbandonato a facezie parlando di quella parte della bozza del programma Lega-M5S pubblicata da Huffington Post in cui si chiede la sterilizzazione di 250 miliardi di debito pubblico in mano a Bankitalia via Qe della Bce. Sul CorSera, più sobriamente, si sottolinea senz’altro il “grossolano errore” visto che, essendo soldi di Banca d’Italia, “la perdita sarebbe imposta allo stesso Paese che la decreta”. Ora, non si sa che fine farà questa proposta, ma per puro amore di dibattito ci permettiamo di citare un pezzo del Sole del 2016, ricordatoci da un collega, in cui si parla di questa ipotesi per il Giappone: “Si tratta di una forma di helycopter money, vale a dire di finanziamento monetario della politica fiscale”, che “potrebbe creare un interessante precedente”. E che succederebbe? Alla banca centrale nulla; “l’impatto di questa manovra sarebbe quella di creare maggior fiducia per consumi e economia”, mentre sui titoli di Stato l’impatto sarebbe “minimo visto che verrebbe distrutto il debito già in mano alle banche centrali” quindi “non a disposizione” del mercato. Ecco, ora bisogna chiedersi: chi può fare la battuta da cui siamo partiti? Solo uno che pensi che Stato e privato funzionino allo stesso modo, cioè un membro di quella congrega la cui prevalenza è già nota da tempo.

Il Fatto 17.5.18
Le nuove solitudini: 3 milioni di italiani non hanno nessuno
Il rapporto Istat 2018 - Un Paese sempre più invecchiato che si regge sulle “reti di famiglie, amici e imprese”, con sacche di esclusione
di Stefano Feltri


In Italia anche la solitudine è una questione di classe: meno del 10 per cento degli individui che appartengono alla cosiddetta classe dirigente afferma di non aver nessuno su cui poter contare, una quota che sale al 25 per cento nelle famiglie degli operai in pensione che si sentono ancora più abbandonate di quelle a basso reddito con stranieri, dove la percentuale della solitudine percepita è al 22. L’Istat, guidato dal professor Giorgio Alleva, ormai si è messo in competizione con il Censis delle formule immaginifiche di Giuseppe De Rita e con il suo rapporto annuale non si limita ad aggiornare le statistiche su conti pubblici, lavoro e immigrati ma offre nuove chiavi di lettura della società italiana attraverso analisi statistiche: quest’anno l’Istat racconta l’Italia delle reti, intese come connessioni familiari, di imprese, di istituzioni, di associazioni. E i risultati di questa analisi descrivono un Paese diverso da quello che immaginiamo.
LE FAMIGLIE. La prima sorpresa riguarda la famiglia. Per effetto del cambiamento demografico – si vive più a lungo ma si fanno meno figli – il numero medio di parenti stretti si contrae per gli anziani, che vedono morire genitori, fratelli e cugini e hanno spesso soltanto un unico figlio cui appoggiarsi. I giovani, invece, di parenti stretti ne hanno di più, perché hanno nonni che vivono più a lungo ma rispetto a dieci anni fa frequentano meno i fratelli (per l’ovvia ragione che di fratelli e sorelle ne hanno sempre meno, con il trionfo dei figli unici). Ognuno di noi ha una rete di familiari composta, in media, da 5,4 parenti stretti e 1,9 tra zii, cugini, cognati, suoceri.
GLI ISOLATI. Dai dati dell’Istat risulta che il 20 per cento dei maggiorenni dichiara però di non avere alcuna persona su cui fare affidamento, l’80 per cento invece cita almeno un parente. Ma la famiglia, per quanto importante, non è l’unica rete di cui si ha bisogno. Ci sono sei milioni di italiani con più di 14 anni che dichiarano di avere più reti e relazioni: il 60 per cento si appoggia agli amici ma ben 3 milioni, invece, dichiarano di non avere nessuno fuori da quella manciata di parenti stretti che gli sono toccati in dote per nascita. E, comunque, le famiglie composte da una persona sola (ammesso che abbia senso chiamarle famiglie) sono passate dal 21,5 per cento del 1997-1998 al 31,6 per cento del 2015-2016. Anche ammesso che questo dato vada preso un po’ con le pinze perché potrebbe non considerare alcuni rapporti di coppia flessibili o comunque non sanciti dal matrimonio, l’Istat ci ricorda che “stare soli, per quanto sempre più spesso sia anche una scelta, non rende più felici”. Questi nuovi single sono quelli che “indicano con meno frequenza punteggi alti per la soddisfazione per la propria vita, in generale e con riferimento alle relazioni famigliari. Tra questi solitari si salvano quelli con un livello di istruzione elevato che compensano l’assenza di famiglia con una maggiore “partecipazione culturale”: l’indice è pari a 47,3 per cento tra i laureati, soltanto 3,1 per cento tra chi ha la licenza elementare.
Incubo pensione. Altra sorpresa: la pensione tanto desiderata da chi vota Lega e Cinque Stelle sperando nella riforma della legge Fornero non è quel momento di serenità e riposo che tanti si attendono. Assomiglia piuttosto a un deserto culturale: nel 2016 gli italiani che non hanno svolto alcuna attività culturale nei precedenti dodici mesi era del 18,6 per cento, ma la percentuale sale all’aumentare dell’età, fino ad arrivare al 49,7 per cento tra le donne over 75 (per gli uomini della stessa fascia è al 32). Sono persone che in un anno non hanno mai letto quotidiani, libri, non sono mai andate al cinema, a teatro o a un concerto. Quando il tempo libero aumenta, sembra subentrare l’apatia. Le coppie senza figli con entrambi i partner sotto i 65 anni che frequentano gli amici almeno una volta a settimana sono il 64,2 per cento. Una percentuale che scende al 55,3 tra le coppie che sono sopra la soglia di età dei 65 anni. A volerne trarre delle conseguenze politiche, verrebbe da dire che bisogna tenere le persone agganciate al mondo del lavoro, magari riducendo il numero di ore (e i salari), perché appena vanno in pensione ed escono dalle reti a cui si sono appoggiate per una vita tendono a isolarsi, soprattutto se hanno un livello culturale basso.
LE IMPRESE. La sorpresa maggiore a cui arriva l’Istat è però il risultato d’insieme del rapporto: le reti sono un valore aggiunto. E questo non è ovvio nel Paese del familismo amorale, dei figli che fanno lo stesso lavoro dei genitori, dell’ascensore sociale bloccato. La connessione, oltre a evitare l’isolamento delle persone, sembra la chiave per la competitività delle imprese. Si sfaldano i distretti industriali (imprese attive nello stesso settore che stanno nello stesso territorio e un po’ competono, un po’ cooperano) mentre aumentano le reti di filiera lunga, aziende connesse con partner in continenti diversi, in una catena del valore globale che è la premessa per realizzare profitti. Lavorare da soli espone a rischi maggiori: tra quanti ritengono probabile interrompere l’attività nei prossimi sei mesi, sette su dieci lavorano da soli. La connessione – umana e imprenditoriale – pare l’unica garanzia di sopravvivenza.

Repubblica 17.5.18
Le disuguaglianze
Il destino dei bambini poveri
di Chiara Saraceno


Nascere e crescere poveri riduce fortemente le possibilità di godere di buona salute. C’è, ad esempio, una correlazione tra povertà e obesità nei bambini e ragazzi. Ma essere poveri riduce anche la possibilità di sviluppare appieno le proprie capacità, a partire da quelle cognitive. I bambini delle famiglie più povere hanno infatti, rispetto ai loro coetanei, una forte probabilità di fallimento scolastico, rischiano di lasciare precocemente la scuola e di non raggiungere livelli minimi di apprendimento in italiano e matematica. Le disuguaglianze quindi si formano e riproducono già nell’infanzia, lasciando il loro imprinting non solo sulle risorse disponibili, ma sui corpi e le menti dei più piccoli. Questo svantaggio riguarda in Italia più di un minore su dieci, se ci si limita alla povertà assoluta, percentuali più alte se si allarga lo sguardo ad altre forme di deprivazione.
Si tratta in prevalenza di italiani, anche se tra gli stranieri l’incidenza è più alta.
Non ci si può quindi sorprendere che alcuni bambini e ragazzi si ribellino a questa ingiustizia sfidando, anche violentemente, la società che, inchiodandoli alle loro condizioni famigliari, sociali, di quartiere, nega loro le opportunità di crescere.
La buona notizia è che non si tratta di un destino ineluttabile, contro il quale non si può fare nulla. Lo ricordava qualche giorno fa su questo giornale Marco Rossi-Doria e lo mostra il Rapporto 2018 di Save the Children “Illuminiamo il futuro” dedicato ai bambini e ragazzi che “nuotano contro la corrente”. Anche quelli che vivono in famiglie e quartieri poveri e in contesti in cui può essere forte la tentazione di prendere scorciatoie per sfogare la frustrazione o farsi valere, possono maturare la pazienza necessaria per investire sul proprio sviluppo, per dedicare energie a quel progetto di lungo periodo che è lo sviluppare le proprie capacità. Purché incontrino luoghi, persone, esperienze accoglienti e capaci di riconoscere e far fiorire le attitudini.
Non sempre basta avere genitori straordinari, capaci di trasmettere ai figli quella che l’antropologo Appadurai ha chiamato la capacità di aspirare nonostante la povertà e le condizioni obiettive di emarginazione. È importante anche la disponibilità precoce, già nella primissima infanzia, di servizi educativi che aiutino a liberare e arricchire le potenzialità dei bambini. È necessaria una scuola capace (e con le risorse necessarie) di accogliere, motivare, sostenere chi non ha alle spalle contesti famigliari e sociali favorevoli e che non concentri negli stessi spazi i bambini e ragazzi più disagiati. Ma sono anche importanti contesti e comunità locali in grado di offrire a questi bambini e ragazzi non solo “luoghi sicuri”, ma luoghi, attività di vario genere, relazioni, che arricchiscano la loro esperienza, facendo così maturare sia il loro interesse, sia le loro capacità, cognitive, emotive, relazionali, estetiche, analogamente a quanto avviene ai loro coetanei più fortunati. Che li facciano diventare resilienti, per usare un termine oggi di moda. Perché la resilienza non è né naturale né gratuita. Va coltivata da una comunità che da un lato offre opportunità educative formali e informali ai più vulnerabili tra i bambini e ragazzi, dall’altro lato, oltre a garantire un livello minimo di reddito a chi si trova in povertà, si preoccupa di costruire condizioni di contesto — lavoro, sicurezza, abitazioni decenti — che non mettano in scacco la resilienza e la capacità di aspirare faticosamente conquistate.

Il Sole 17.5.12
La Ue teme uno «scenario greco»
Anche se è stata ritirata, la proposta di Lega e M5S ha creato sconcerto in Commissione
di Beda Romano


Sofia. È con incredulità e preoccupazione che l’establishment comunitario assiste al tesissimo dibatitto politico italiano. La fuga di notizie che ha rivelato martedì sera una controversa bozza di programma di coalizione tra la Lega Nord e il Movimento Cinque Stelle ha scosso non poco Bruxelles. Il timore è che l’Italia possa seguire l’esempio della Grecia, mettendo però questa volta seriamente a rischio il futuro stesso dell’unione monetaria.
Dietro ai commenti ufficiali, Bruxelles era atterrita ieri dalle proposte contenute in un programma, si dice ormai superato, ma comunque assai più radicale delle attese. Vi era un tempo quando le preoccupazioni comunitarie si limitavano eventualmente a misure senza copertura finanziaria. Nel programma fatto trapelare questa settimana si propone la cancellazione del debito italiano in mano alla Banca centrale europea e possibilmente l’uscita dalla moneta unica, oltre che politiche di bilancio molto generose.
Nella speranza che i propositi più estremisti vengano rivisti, ieri sera c’era un certo attendismo nei confronti della formazione di un governo M5S-Lega Nord. «La gente è rimasta scioccata, incredula», ammette un esponente comunitario vicino al vertice della Commissione europea. «C’è da chiedersi come sia possibile che idee così radicali possano essere state seriamente prese in considerazione». Sorprende la conoscenza approssimativa dei delicati equilibri che sottintendono a una unione monetaria.
«L’Unione europea non sarebbe completa, senza la nazione e il popolo italiano», ha detto ieri il presidente dell’esecutivo comunitario Jean-Claude Juncker, a Bruxelles, rispondendo ad una domanda sull’Italia. «Li conosco molto bene perché nel mio villaggio sono cresciuto con degli italiani: giocavamo a calcio e potete immaginare il risultato, come quelli ufficiali (quelli delle rispettive Nazionali, ndr). Amo questo Paese, amo il genio del popolo e della nazione italiana».
In attesa dell’esito finale delle discussioni politiche a Roma, l’ex premier lussemburghese è rimasto prudente: «Non commenterò in anticipo quale potrebbe essere il risultato dei negoziati in corso tra i supposti partner di coalizione in Italia. Vedremo quali saranno i risultati e allora commenteremo». La preoccupazione di molti qui a Bruxelles è che l’Italia possa affrontare in un modo o nell’altro una parabola non dissimile da quella che subì la Grecia nel 2015.
In un primo tempo, l’attuale premier Alexis Tsipras si mostrò combattivo, pronto a rivedere le regole della moneta unica. Dinanzi alla reazione ferma dei partner e negativa dei mercati, oltre che a una drammatica fuga dei depositi, egli fu costretto non solo a fare marcia indietro, ma anche a chiedere nuovi aiuti in cambio della promessa di riforme economiche. L’Italia non è la Grecia, in termini di debito pubblico e di peso economico: una parabola simile potrebbe mettere a rischio l’intera zona euro.
In questo senso, un diplomatico comunitario ha definito «irresponsabile» la bozza di programma, per via dell’impatto negativo che già ha avuto ieri sui mercati. Poiché eventuali nuove elezioni rischiano di produrre risultati simili a quelli di marzo, le speranze corrono ai paletti contenuti nella Costituzione italiana, gli articoli 81, 97 e 119 che sanciscono l’impegno al pareggio di bilancio. Se la situazione si facesse seria, i partner potrebbero decidere di lasciare l’Italia al suo destino, per evitare di fare la stessa fine.
Proprio oggi i Ventotto si riuniscono a Sofia per una vertice dedicato ai rapporti tra l’Unione europea e la regione balcanica. Altri temi prenderanno il sopravvento, a cominciare dalla crisi politica in Italia. «Comunque vada a finire, è probabile che questa vicenda farà riflettere molti paesi, a iniziare dalla Germania – spiega il diplomatico comunitario -. Difficile a questo punto immaginare accordi di sostanza su un rafforzamento della zona euro. I rischi visti da Berlino sono eccessivi».
Dopo aver tanto premuto in questi anni per nuove forme di solidarietà, l’Italia rischia di essere vittima di se stessa. Uscire dall’euro «è pericoloso» ed è «fortemente dannoso per le famiglie, i risparmi, i lavoratori e le piccole e medie imprese in tutta l’Unione», ha scritto in un tweet in inglese il presidente del Parlamento europeo e candidato premier del centro-destra alle ultime elezioni Antonio Tajani, il quale ha poi aggiunto: «Noi dobbiamo riformarlo, non abbandonarlo».

il manifesto 17.5.18
Caso Uva, chiesti 89 anni di carcere per poliziotti e carabinieri
Giustizia. Il pg della Corte d’Assise d’Appello di Milano confuta la sentenza di primo grado. Morte provocata dalla «violenta manomissione» nel «trasferimento coatto in caserma»
di Eleonora Martini


C’è un procuratore, a Milano. Che per la prima volta vede ciò che finora sembrava invisibile. Ed è l’unica consolazione per la famiglia di Giuseppe Uva, il gruista 43enne morto il 14 giugno 2008 dopo essere stato trattenuto per una notte all’interno della caserma di via Saffi a Varese, che chiede da dieci anni verità e giustizia.
«Anche a prescindere dalle eventuali percosse subite e dalle lesioni riscontrate sul suo corpo», Giuseppe Uva è morto «a causa di un’aritmia provocata dalla violenta manomissione sulla sua persona col trasferimento coatto in caserma». È quanto ha sostenuto ieri durante la requisitoria, davanti alla Corte d’Assise d’Appello, il pg di Milano Massimo Gaballo che, in opposizione alla sentenza di primo grado che ha assolto tutti gli imputati, ha chiesto di condannare a 13 anni di reclusione i due carabinieri, e a 10 anni e 6 mesi i sei agenti di polizia accusati di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona aggravato.
A prescindere dalla loro colpevolezza – il processo riprenderà il prossimo 23 maggio e la sentenza è prevista per fine mese – è comunque la prima volta che la magistratura inquirente non assume su questo caso solo il punto di vista di polizia e carabinieri. A cominciare dall’illegittimità di quel trasferimento in caserma per identificare due persone già note alle forze dell’ordine cittadine: la vittima e il suo amico Alberto Bigioggero che quella notte, ubriachi, stavano trascinando alcune transenne al centro di una strada.
Diverso il giudizio anche sulla testimonianza di Bigioggero, cui la Corte d’Assise di Varese non ha dato alcuna credibilità. L’uomo, che ha problemi psichiatrici, aveva riferito le parole che sarebbero state pronunciate da uno dei due carabinieri nel momento in cui, scendendo dall’auto di servizio, riconobbe Giuseppe Uva: «Proprio te stavamo cercando, questa non te la faccio passare». Parole che secondo il pg Gaballo erano dettate dalla «presunta storia di Uva con la moglie di un carabiniere». «Lui si vantava di questa relazione – ricostruisce il sostituto procuratore – Una vanteria che era più che sufficiente per una punizione, per persone che non si fanno nessuno scrupolo a piegare i propri poteri istituzionali a interessi personali». E invece di ascoltare il testimone, secondo il Pg, i pm interrogarono Biggioggero «con modalità barbare», «in violazione del codice penale e del rispetto della libertà di auto-determinazione».
Ma soprattutto, il procuratore generale di Milano cerca una spiegazione a quella serie di ferite riscontrate sul corpo di Uva sulle quali la sentenza di primo grado sorvolava: «Ematomi che non possono essere il frutto di autolesionismo, così come affermato dagli imputati nel tentativo di giustificarsi». («Il collega frapponeva il suo stivale tra il pavimento e la testa di Uva, per evitare che questi si facesse più male urtando contro la superficie dura del pavimento», riferivano i militari per giustificare il Trattamento sanitario obbligatorio con il quale venne ricoverato quella notte Giuseppe Uva, poco prima di morire).
Una vicenda, questa, che ha alcune similitudini con la morte di Aldo Bianzino, avvenuta il 14 ottobre 2007 nel carcere di Perugia Capanne e in relazione alla quale è stato condannato in via definitiva, per omissione di soccorso, un poliziotto penitenziario. Secondo la ricostruzione processuale, la morte del falegname arrestato per qualche piantina di marijuana sarebbe stata causata da un aneurisma. Questa mattina però, nella sala Nassirya del Senato, il figlio Rudra, l’associazione A buon diritto e i senatori Zanda e Manconi presenteranno la nuova perizia medico legale autorizzata dal Gip che potrebbe riaprire il caso.

Repubblica 17.5.18
La violenza di Sorrento
Fate silenzio, lo stupratore è italiano
di Michela Marzano


La notizia dell’arresto di cinque dipendenti di un hotel di Sorrento, che nell’ottobre del 2016 avevano drogato e violentato una turista inglese di una cinquantina d’anni, risale a qualche giorno fa. Le prove a disposizione degli inquirenti sono schiaccianti. Compresa una chat denominata “cattive abitudini” dove i membri del branco, tutti italiani, condividendo video e foto dello stupro di gruppo, non hanno esitato a scherzare in modo volgare dileggiando la vittima: «ci siamo fatti una nonnina», e via di seguito. Ne hanno scritto i giornali, se ne è parlato in tv, si è commentato sui social.
Praticamente nessun leader politico, però, sembra essersi sentito in dovere di condannare esplicitamente l’accaduto: fatti, atteggiamenti e parole che non ho alcuna remora a definire “barbari”.
Perché? Sarebbe successo lo stesso se gli aggressori fossero stati stranieri?
Non era stata forse unanime la condanna quando, nell’agosto 2017, quattro giovani nordafricani avevano aggredito una coppia di polacchi o quando, lo scorso settembre, una turista finlandese era stata stuprata da un bengalese?
La memoria fa spesso brutti scherzi, certo, ma è difficile dimenticare le dichiarazioni di un Matteo Salvini che su Facebook, all’indomani dei fatti di Rimini, dopo aver definito gli aggressori «vermi», non esitava a parlare di «castrazione chimica»; o le polemiche contro l’allora presidente della Camera Laura Boldrini dopo il post del leghista Siorini che accusava lei, e en passant le femministe, di tacere per difendere gli immigrati. Dove sono finiti ora tutti coloro che si sono scandalizzati di fronte alle violenze sessuali commesse dagli stranieri? I fatti sono meno gravi quando a commetterli è un branco di italiani?
Sarebbe utile per tutti fare un esame di coscienza, ma anche chiarezza su ciò che è in gioco quando si parla di stupri, vittime e colpevoli: la gravità dei fatti non cambia a seconda della nazionalità o del colore della pelle di chi li commette; è sempre inaccettabile e condannabile l’atteggiamento di chi viola l’intimità di un’altra persona, la stupra e non ne rispetta la dignità; ogni vittima merita il massimo rispetto; ogni colpevole, nonostante sia colpevole e debba assumersi la responsabilità dei propri gesti e pagare per i crimini commessi, continua a dover essere trattato come un essere umano. Sono cose evidenti, banali, che non dovrebbero nemmeno essere ricordate. Ma quando si assiste, in certi casi, a reazioni spropositate e, in altri, all’assenza totale di condanna, sorge il sospetto che stiano venendo meno le basi del vivere-insieme. C’è chi reagisce solo quando i colpevoli sono stranieri e tace di fronte ai crimini dei connazionali, come se condannare lo stupro di un branco di italiani portasse pregiudizio all’immagine del Paese. C’è chi esita, al contrario, a prendere la parola quando i colpevoli sono stranieri, per evitare forse di compromettere il processo di integrazione. In entrambi i casi, però, non si aiuta un Paese a crescere culturalmente ed eticamente. Lo stupro di una donna è sempre un crimine. Nessuno dovrebbe mai anche solo immaginare di poter trattare una persona come un semplice oggetto. Chi rappresenta le istituzioni dovrebbe saperlo, e mostrare l’esempio, e avere il coraggio di prendere sempre la parola per condannare i colpevoli di atti di barbarie indipendentemente dalla loro nazionalità. È una questione di civiltà. Ma anche di rispetto nei confronti di chi, da un leader politico, si aspetta coerenza e dignità.

il manifesto 17.5.18
I barbari contro le sentinelle del sistema
di Michele Prospero


Nelle trattative per definire il contratto di governo, con la volontà di costituzionalizzare la figura dei “capi partito”, la sensazione di un grado zero della politica si fa più forte. A cominciare dalla metamorfosi di non-partiti che dall’intransigenza assoluta (niente compromessi, e negoziati) virano verso la ricerca di accordi con chiunque dia una mano a entrare nel Palazzo.
E viene istituito un parallelo “comitato per la conciliazione”, svelando così la consistenza culturale reale degli attori della nuova politica.
Ma se delle nullità politiche oggi giocano il ruolo di attori dominanti nel dramma italiano, questo è accaduto perché quelli che avrebbero dovuto fornire delle più credibili alternative sono crollati, rivelandosi personaggi mediocri di una commedia senza lieto fine. La povertà della politica ufficiale è ancor più disarmante delle pacchiane esibizioni istituzionali dei capi della coalizione verde-giallo nella stesura del contratto per dichiarare guerra agli “eurocrati” per la remissione dei debiti.
Un esponente del Pd, che ha dato il nome alla vigente legge elettorale, svela come proprio la follia dei politici normali sia la principale ragione del successo dei politici irregolari. «Alleanza M5s-Lega? Noi del Pd abbiamo una grandissima opportunità: prendere i voti che sono stati dati ai 5 Stelle. Dobbiamo provare a convincere gli elettori M5s che siamo molto più coerenti dei 5 Stelle che avevano come unico obiettivo quello di sedersi a Palazzo Chigi».
Proprio mentre le cancellerie tremano dinanzi alla velleità di abbandonare l’euro e gli organi della finanza internazionale sono in allarme per i moderni barbari, lo stato maggiore del Pd gongola perché il governo peggiore rappresenta “una grandissima opportunità”. Dove è il pericolo allora, negli ideologi della ruspa e del rosario che con le loro alchimie sfasceranno lo Stato o nelle sentinelle del sistema che giocano tutte le carte nell’aspettare il fallimento dei barbari?
Molti osservatori si interrogano sulla decadenza di una grande democrazia d’occidente che affida il governo all’inesperienza. Ma c’è in questo timore dell’annichilimento una omissione. Sono stati i “normali” ad aver varato “governi dei senza retroterra” con personalità alle prime armi collocate nei dicasteri chiave. Se per fare il presidente del consiglio “normale” basta avere come ideologia la rottamazione e alle spalle qualche seduta del consiglio comunale a Palazzo Vecchio, come si può arginare l’ascesa al comando degli oscuri ministri e “premier esecutori” reclutati nelle reti occulte dei non-partiti?
Da Veltroni che nominò sul campo Madia e Picierno, in nome proprio della loro rivendicata e assolta inesperienza, a Renzi che ha portato al governo Lotti, Boschi e la ristretta compagnia gigliata, tutto è stato allestito per la mistica del marketing politico che richiede comparse, non dirigenti. Oggi che la dissoluzione del senso della politica come cosa complessa è da ritenersi completa perché “uno vale uno”, andrebbe meditato un pensiero di Hans Kelsen.
Il giurista di Praga scriveva che «la supposizione demagogica che tutti i cittadini siano ugualmente atti ad esercitare qualsiasi funzione politica finisce col ridursi alla semplice possibilità per i cittadini di essere resi atti ad esercitare ogni funzione politica. L’educazione alla democrazia diviene una delle principali esigenze della democrazia stessa». La demagogia, che è già in Aristotele la forma di degenerazione della democrazia, recita che non c’è bisogno di politici ma di portavoce, che non servono statisti ma “cittadini punto e basta”.
Questa ideologia, che i cinque stelle hanno solo raccolto e portato a compimento, ha distrutto, con i partiti quali luoghi di formazione della classe dirigente mossa da idealità, la democrazia italiana, la capacità di governare la grande crisi.
Ad uccidere la politica, è stata anzitutto la grande borghesia che, nella sua stampa, ha inventato ed esportato nel mondo la parola “casta”, raccolta da tutti i movimenti populistici che raffigurano la politica come autocrazia, chiusura in una sfera repressiva di privilegio.
Il trionfo della borghesia antipartito, che ora mostra segni di nervosismo per il disastro da essa stessa procurato, non ci sarebbe però stato se, da Occhetto ai suoi successori, non fosse stato decostruito alla radice il grande partito di massa e quindi abbandonata la cultura politica che, soprattutto nei momenti critici, trattiene, orienta, dirige.
Il sociologo De Masi, come l’economista Sapelli vengono dal Pci e sono la trasparente prova di quante schegge siano schizzate fuori dalla distruzione della cultura politica comunista.
Che fare? Ricominciare dai fondamenti, dalla cultura, dalla lenta riprogettazione della politica organizzata.

La Stampa 17.5.18
Migranti d’Italia
Il millennio medievale un turbinare di popoli che si spostavano lungo l’asse della penisola
di Alessandro Barbero


Viste le polemiche politiche suscitate dal tema dell’immigrazione, potrebbe sembrare strumentale ricordare che anche in altre epoche l’Italia è stata terra di approdo, e che gli italiani di oggi sono il frutto di imponenti rimescolamenti di popoli. In realtà rievocare quel passato non significa sdrammatizzare le emergenze attuali, perché nessuno degli episodi di immigrazione, di colonizzazione o di conquista che hanno avuto come teatro la Penisola è stato indolore: ovunque ritroviamo la fatica degli emigranti, l’angoscia dei profughi, lo spavento degli indigeni, la dura disciplina imposta dai governi. Ma è altrettanto vero che ognuna di quelle ondate è stata assorbita, che il Paese ha continuato a vivere e a lavorare, e che via via nuove preoccupazioni sono venute a far dimenticare quelle vecchie, secondo il ritmo implacabile della vita e della storia.
Migrazione, in realtà, è una parola che può voler dire tante cose diverse: e infatti la diversità del fenomeno migratorio nella storia della Penisola è sbalorditiva. Limitiamo lo sguardo al millennio medievale: vedremo alternarsi stanziamenti di popolazioni barbariche, pianificati dalle autorità imperiali romane con metodi che ricordano irresistibilmente le deportazioni staliniane; invasioni guidate da élites guerriere che s’impiantano stabilmente nel Paese, dai franchi di Carlo Magno ai normanni di Roberto il Guiscardo; insediamenti di profughi da cui nascono minoranze stabilmente inserite nel panorama italiano, dai greci agli albanesi, dagli ebrei agli zingari; migrazioni di massa dalla campagna alla città, senza le quali il comune medievale non avrebbe potuto nascere, e migrazioni stagionali di muratori, spaccapietre e ambulanti dalle valli alpine verso Milano, Genova o Marsiglia, antesignane di un modo di vita di cui i vecchi montanari hanno ancor oggi il ricordo.
A colpire di più l’immaginazione, ovviamente, sono i trasferimenti di interi gruppi umani. Come i Sarmati, abituati a vivere da nomadi nelle steppe oltre il Danubio, e che Costantino trasferì in massa in Italia, trasformandoli in contadini. Una deportazione così massiccia che nella Penisola bisognò creare ben quattordici prefetture per gestire il loro insediamento, di cui sei nell’attuale Piemonte, a Torino, Acqui-Tortona, Novara, Vercelli, Ivrea, Pollenzo; e che oggi ha lasciato tracce soltanto in certi nomi di luogo, come Salmour. Oppure i greci che il governo bizantino trasferì in massa in Sicilia e in Calabria, per consolidare quella che era diventata una frontiera dell’impero, dopo la conquista longobarda dell’Italia. Un vero e proprio piano preordinato di colonizzazione etnica, che permise anche di mettere in salvo la marea di profughi, per lo più di lingua greca, che l’invasione araba aveva cacciato dalla Siria, dalla Palestina e dall’Egitto.
Intorno all’anno Mille l’Italia, dal punto di vista etnico e linguistico, era divisa in due. La schiacciante maggioranza della popolazione, fino alla Puglia e alla Basilicata, si considerava longobarda, e i suoi preti pregavano in latino. Già, perché sbaglieremmo di grosso a credere che l’impronta longobarda si sia limitata a quel Nord padano che più tardi, in età comunale, si chiamerà appunto Lombardia: a Bari, ancora nel Rinascimento s’incontrano matrimoni celebrati secondo le norme dell’editto di Rotari. E poi c’era l’estremo Sud, governato in parte da Costantinopoli, in parte da Tunisi: la Sicilia, la Calabria, il Salento. Lì la popolazione cristiana era greca e i suoi preti pregavano in greco; ma accanto ai cristiani viveva anche una consistente popolazione araba musulmana, oltre a fiorenti comunità ebraiche.
Forse l’Italia non era mai stata così lontana dal costituire un unico Paese. I secoli successivi vedranno la comparsa di nuove diversità, ma anche il venir meno dell’opposizione linguistica e religiosa tra il Nord e l’estremo Sud. Federico II, mitizzato oggi come simbolo di tolleranza, sradicò la popolazione araba dalla Sicilia, ne trasferì una parte in Puglia, disperse o sterminò il resto. A riempire i vuoti paurosi creati nell’isola dalla pulizia etnica, d’accordo con i suoi parenti piemontesi trasferì contadini da quella che allora, appunto, si chiamava Lombardia, cioè soprattutto dall’area monferrina; pochi sanno che uno dei luoghi interamente ripopolati grazie all’afflusso di immigrati dal Nord fu l’araba Corleone. Intanto, il Comune di Siena importava manodopera dalla Corsica per ripopolare la Maremma, dove nessuno riusciva a resistere alla malaria; i pastori del Vallese, che parlavano tedesco, colonizzavano gli alti pascoli del versante valdostano e valsesiano, dando origine alle comunità walser; dall’altra parte d’Italia, coloni bavaresi si stabilivano sull’altipiano d’Asiago, ignari che di lì a poco qualche erudito credulone avrebbe creduto di ritrovare in loro i discendenti dei Cimbri sfuggiti a Caio Mario.
E ancora: arrivavano ebrei dalla Germania, e si stabilivano a Venezia, a Ferrara, ad Ancona. Sloveni, croati, albanesi attraversavano l’Adriatico sbarcando nelle Marche e nelle Puglie, per sfuggire all’avanzata turca, o semplicemente alla povertà di una società arcaica, cercando lavoro in quello che era allora il Paese più ricco d’Europa. E nel 1422 un cronista bolognese registrava l’arrivo in città di «un duca d’Egitto», con una carovana di gente del suo paese: chiedevano l’elemosina, commerciavano in cavalli, le loro donne erano bravissime a leggere la mano. Benché sostenessero di venire dall’Egitto, si portavano dietro il nome che li designava in Grecia, zingari, ed è quel nome che attecchì in Italia; altri popoli più ingenui li credettero egiziani davvero, e li chiamarono così, gypsies. La gente li trovava divertenti e li applaudiva; poi qualcuno notò un aumento di furti, e l’accoglienza divenne meno entusiastica, anzi ci furono Comuni che proibirono loro di entrare sul proprio territorio. L’Italia, fra tanti sconvolgimenti, cominciava pian piano ad assomigliare a quella di oggi.

«Gramsci nei Quaderni del carcere spiegava l’importanza di uno studio severo, addirittura coercitivo, del latino. Ma il povero insegnante di oggi ha di fronte ragazzi che vivono immersi in un’altra cultura. Inoltre Gramsci si rivolgeva a un a élite intellettuale. Il nostro problema è parlare a tutti»
Repubblica 17.5.18
Maurizio Bettini. Contro il nozionismo
“Via il pensiero unico dai nostri licei classici”
di Raffaella De Santis


Giusto difendere il liceo classico, a patto però che non si continui ad insegnare il greco e il latino come si faceva cento anni fa. «È disperante», dice Maurizio Bettini. Dopo l’intervista di ieri su Repubblica al filologo Federico Condello, Bettini interviene per ribadire quanto da anni scrive nei suoi libri e sperimenta sul campo: «Il liceo classico deve fare i conti con la realtà. I ragazzi di oggi vivono connessi ai social network. Più che insegnare la grammatica antica dovremmo aprirci alla conoscenza delle altre civiltà».
Bettini, professore di filologia classica a Siena e a Berkeley, è il fondatore del centro senese Antropologia e Mondo antico, autore di testi come A che servono i Greci e i Romani? (Einaudi) in cui ha analizzato proprio il senso delle studio delle lingue classiche oggi.
Che cosa non la convince nella difesa del liceo classico di Condello?
«Credo che il liceo classico debba orientarsi verso nuove possibilità di insegnamento. Oggi i ragazzi vivono immersi nella Rete e il povero insegnante ha di fronte giovani per i quali il libro stesso è diventato un oggetto strano».
È vero però che studiare il greco e il latino è faticoso.
Sembra difficile alleggerirlo.
«Gramsci nei Quaderni del carcere spiegava l’importanza di uno studio severo, addirittura coercitivo, del latino. Ma il povero insegnante di oggi ha di fronte ragazzi che vivono immersi in un’altra cultura. Inoltre Gramsci si rivolgeva a un a élite intellettuale. Il nostro problema è parlare a tutti».
Quali soluzioni propone per mantenere vivo l’interesse verso la cultura classica?
«Una serie di esperimenti. Primo fra tutti l’esperienza teatrale: la mia proposta è stimolare i ragazzi a tradurre un testo per poi adattarlo per la scena e rappresentarlo».
Può bastare?
«Bisogna inoltre spingere sull’antropologia, sulla storia della ricezione degli studi classici (i cosiddetti reception studies) e sullo studio della retorica. Leggere le opere antiche di Cicerone può aiutare i ragazzi a capire come i comunicatori e i politici di oggi utilizzino gli strumenti della retorica antica. Capirebbero che un’espressione come “stiamo facendo il contratto di governo” è una metafora con la quale si vuole suggerire che stavolta si fa sul serio, come quando si stipula un contratto d’affitto. Chi ha studiato Cicerone ha un vantaggio cognitivo, sa riconoscere la trappola retorica».
Che cosa intende per antropologia del mondo antico?
«Consiste nel far vedere come i greci e romani siano “altri” da noi, come siano “diversi”. Rimango convinto che approfondendo questi temi di civiltà si possa riflettere meglio sul presente. Si tratta di mettere in prospettiva se stessi attraverso l’alterità degli antichi. Si può parlare dei migranti e degli immigrati anche attraverso l’Eneide. Un approccio solo letterario e grammaticale a mio avviso non funziona».
In realtà Condello sostiene
che la traduzione non è mai un mero processo meccanico.
«Dovrebbe essere così, ma in realtà non accade. Difficile immaginare che esistano ragazzi talmente bravi da far convergere lingua e cultura».
Crede che la traduzione così com’è serva a poco?
«Ho incontrato insegnanti aperti ad altri metodi, ma perlopiù l’esercizio della traduzione è fermo a un secolo fa. Continuare a presentare un brano in greco o latino senza contestualizzarlo, senza accompagnarlo alla conoscenza della cultura antica, mi sembra incredibile. Col risultato che la maggior parte degli studenti copia la versione da internet».
Dati alla mano, dice Condello, il classico funziona. Chi lo frequenta eccelle all’università, anche nei corsi scientifici.
«Leggere quei dati non è così automatico. Bisognerebbe tener conto che i ragazzi che vanno al classico vengono da famiglie culturalmente attrezzate, sono già selezionati alla base. Quando si proponevano certe percentuali, Tullio De Mauro spingeva a considerare l’ambiente familiare di partenza. A ragionare si impara soprattutto in famiglia, poi certo la filosofia e le lingue antiche possono aiutare».
E cosa pensa dell’idea di esaltare la bellezza dell’inutilità degli studi letterari?
«In questo sono d’accordo con Condello. Mi sembra una definizione un po’ snob. Credo però che Nuccio Ordine e Nicola Gardini la usino in modo ironico per dimostrare in fondo che gli studi classici servono. Di una cosa sono certo: tutti i libri scritti in questi anni, da quelli di Gardini e Ordine a La scuola giusta di Condello, fino alla Lingua geniale di Andrea Marcolongo hanno un’influenza positiva sull’insegnamento delle lingue antiche, risvegliano il dibattito».
Tempo fa Mark Zuckerberg ha rivelato di amare il latino e l’Eneide. Detto dall’inventore di Facebook non fa sorridere?
«Eppure sentirlo è stato rassicurante. Se a dirlo è Zuckerberg, ci siamo detti, allora il latino deve essere davvero utile.
Noi italiani siamo complessati, aspettiamo di essere rassicurati dall’esterno perché viviamo il passato con senso di colpa, come se ci vergognassimo di averne tanto alle spalle. Invece dovremmo farne un punto di forza. Dovremmo rassegnarci all’idea che siamo il paese dei musei e della tradizione classica, quello che gli americani chiamano The Land of Culture ».
Quale cambiamento propone nell’immediato per il liceo classico?
«Riformare la prova di maturità, affiancando la traduzione dal greco e dal latino a una serie di domande che permettano allo studente un approccio culturale e non solo linguistico. Lo propongo da anni e ho fiducia che a breve ci arriveremo».

Il Fatto 17.5.18
Il sogno di Orbán: Europa blindata modello Ungheria
Messe alla porta le associazioni liberali del magnate Soros, il premier punta alla fine all’Unione: “Non salveremo una democrazia naufragata”
di Michela A. G. Iaccarino


Negli uffici della fondazione Open Society a Budapest gli addetti chiudono gli scatoloni e spengono le luci. Li riapriranno solo una volta a Berlino. La battaglia è stata perduta: l’associazione per i diritti umani e civili, finanziata dal magnate ebreo George Soros, ha chiuso definitivamente i battenti in Ungheria. “Il governo ci ha screditato con le menzogne, ha soffocato la società civile per vantaggi politici con strumenti mai visti in Europa”: con queste parole il presidente dell’ong Patrik Gaspard ha detto addio agli spettri dispotici che si agitano impuniti sul Danubio.
“L’era delle democrazie liberali è finita”. Il premier Orban l’ha detto quattro giorni prima che la Open Society decidesse di trasferire la nuova sede operativa in Germania, quando il Parlamento intorno lo applaudiva durante l’insediamento per il suo quarto mandato da premier.
Nonostante gli scandali di corruzione che avvolgono la sua cerchia, Orban ha ottenuto un’ampia maggioranza alle ultime elezioni ripetendo solo tre cose: i migranti distruggeranno l’Ungheria, Soros vuole eliminare la sovranità magiara, io li fermerò.
Oltre alla Open Society, nel mirino del governo Fidezs adesso rimane un’altra istituzione finanziata dal tycoon ebreo: la Ceu, Central European University, fondata nel 1991, l’anno in cui l’Unione Sovietica moriva. Si trova nella Capitale: le sue attività potrebbero terminare a breve, come è successo alla Open Society.
“La nostra missione era insegnare alle persone a essere libere”, ma l’ambiente è sempre più “ostile”, ha detto il rettore Micheal Ignatieff, ex politico liberale canadese. La decisione che verrà presa sull’università “avrà infinite ramificazioni per quello che diventerà l’Ungheria”.
Con nessun margine di manovra all’orizzonte e poche possibilità per continuare a lavorare, “un altro anno accademico così risulta impossibile, ma noi non ce ne andremo in silenzio”, ha promesso Ignatieff. Tra banchi e corridoi i professori già mormorano coordinate austriache, l’istituzione potrebbe trasferirsi a Vienna, intanto è stop alle iscrizioni degli studenti da gennaio, mentre al parlamento di Budapest procede anche la cosiddetta “legge anti-Soros”, disegno che prevede una stretta ulteriore alle libertà civili e una tassa del 25% a tutte le associazioni che ricevono finanziamenti dall’estero.
Nella guerra che Orban ha dichiarato a ogni oppositore del suo potere, media liberi compresi, nessun comodo armistizio verrà trovato in patria, ma la sua prossima tappa è oltre confine. Orban vuole conquistare Bruxelles per mettere fine “all’incubo degli Stati Uniti d’Europa” e divenire testa d’ariete di Stati-nazione dell’Unione.
Oltre la barriera di filo spinato alla frontiera d’Ungheria, il premier mira a quello che ha definito il “grande gioco”, il piano continentale: “Abbiamo bisogno dell’Unione, l’Unione ha bisogno di noi. Non proveremo a salvare una democrazia liberale naufragata, ma costruiremo la democrazia cristiana del 21° secolo”. Orban in pugno ha già il suo Paese, nell’altro adesso vuole stringere l’Europa.

Repubblica 17.5.18
La sfida della ricerca
La Cina a caccia di talenti tra gli scienziati italiani “Venite, c’è posto per tutti”
di Corrado Zunino


La proposta via mail alle eccellenze europee: “ Vi paghiamo anche il viaggio” Solo a Guangzhou saranno assunti 70 fisici: alla Sapienza sono in totale 78

Roma L’università cinese, nuovo Eldorado della ricerca mondiale, chiama l’Italia. Via mail. Lo sviluppo scientifico della Repubblica popolare è così tumultuoso che, ormai, l’offerta di lavoro supera la domanda. L’Accademia delle scienze di Pechino, consapevole che questo genere di lavoro si fa in collaborazione transnazionale, ha iniziato a chiedere esplicitamente a ricercatori e scienziati del mondo di raggiungerla. Per proseguire insieme.
L’ultima occasione sta girando in questi giorni sugli indirizzi elettronici dei fisici italiani. Una chiamata da ufficio di collocamento, di cui è diventata destinataria l’autorevole ex direttrice dei laboratori del Gran Sasso, Lucia Votàno. Alla scienziata dei neutrini, che con i cinesi collabora dagli Anni 80, ha scritto il professor Wei Wang, dalla Scuola di fisica dell’Università di Guangzhou. « Nelle nostre università abbiamo un numero praticamente infinito di posizioni in fisica da assegnare, coprono l’intero range dal postdoc al professore ordinario», si leggeva. «Nei prossimi 3- 5 anni abbiamo 70 posizioni nuove da coprire presso la nostra scuola. E altre 70 posizioni alla Scuola di Zhuhai. Fisica delle alte energie, della materia » . L’emerito full professor ha aggiunto: « Aiutatemi a trovare ricercatori validi. Possono concorrere tutti, da qualsiasi Paese. Non importa che non sappiano il cinese. Divulgate questa richiesta».
I primi a divulgare sono stati quelli di Scienzainrete. E hanno fatto la prima comparazione. La Sapienza, la più grande università d’Italia, nel suo Dipartimento di Fisica ha 28 posizioni da ordinario e 50 da associato: 78 posti fissi. La sola Università di Guangzhou si accinge ad assumere, tutto insieme, un dipartimento grande quanto quello della Sapienza. Così l’Università di Zhuhai: un nuovo Dipartimento ogni mail inviata.
Dicevamo Lucia Votàno. A 71 anni può guardare indietro e rivedere, oltre alle 290 pubblicazioni su riviste internazionali, il suo viaggio dalle profondità del Gran Sasso alle montagne di Jiangmen. Entro il 2020 lì nascerà il progetto Juno, un gigantesco rivelatore sotterraneo di neutrini che utilizzerà allo scopo lo scintillatore liquido, tecnologia da vent’anni applicata dall’Istituto nazionale di fisica nucleare. «I cinesi, che fanno le cose in grande come un tempo le facevano i nordamericani — spiega la scienziata — hanno speso 300 milioni di dollari e chiederanno a trecento ricercatori di 45 laboratori di lavorare con loro. Stiamo esplorando la nuova frontiera della ricerca sul neutrino». Con una sfera di 20.000 tonnellate e 40 metri di diametro che emetterà lampi di luce, raccolti da 35 mila fotomoltiplicatori. Dice Votàno: « Ricordo quando, sotto l’egida del professor Antonino Zichichi, selezionavo ricercatori cinesi per offrire loro borse di studio per i Paesi in via di sviluppo. Oggi è la Cina, seconda potenza scientifica al mondo, il datore di lavoro » . L’Accademia delle scienze è pronta a pagare il viaggio ai giovani scienziati e a versare stipendi concorrenziali per un progetto di ricerca di base: 2.500 dollari mensili per un postdoc e cifre cinque volte più alte per un dirigente.
L’Italia, che galleggia sul suo 1,29per cento ( del Pil) investito in ricerca, ha intrapreso diverse collaborazioni scientifiche con la Cina. L’Infn, appunto. L’Agenzia spaziale italiana sui satelliti, l’Enea sulla botanica. All’ultima Settimana della scienza, a Pechino, la ministra Valeria Fedeli ha contato dieci progetti comuni avviati: due in fisica, tre sui nuovi materiali, uno su temi ambientali, quattro sulla salute.
In biologia i cinesi detengono il 30% della capacità mondiale di sequenziamento del Dna e il Paese laurea più giovani ingegneri di tutti quelli che risiedono negli Stati Uniti. «L’altro giorno un giovane fisico italiano mi chiedeva aiuto perché non sapeva se gli rinnoveranno il contratto — dice Votàno — Gli ho girato la mail di Guangzhou».

Repubblica 17.5.18
L’astrofisico professore ordinario Fisica all’Università Fudan di Shanghai
“Qui i soldi ci sono e l’offerta di lavoro supera la domanda. Per chi è bravo è facile fare strada”
di Filippo Santelli


PECHINO «Qui in Cina l’offerta di cattedre e di fondi per la ricerca è superiore alla domanda, anche nelle università più importanti. Se uno è bravo non è un problema». Un maglione un po’ sformato, jeans e scarpe da ginnastica: Cosimo Bambi non ha l’abito del professore ordinario. Né l’età, visto che la sua cattedra in Fisica all’Università Fudan di Shanghai, una delle più importanti del Paese, l’ha avuta già cinque anni fa, quando ne aveva solo 33. «Un po’ è merito del programma con cui sono arrivato», racconta l’astrofisico toscano, oltre cento pubblicazioni sui buchi neri e la loro misteriosa energia. Bambi è uno dei “giovani talenti” stranieri che dal 2008 la Cina cerca di attirare con ponti d’oro, cervelli utili alla rincorsa del primato scientifico e tecnologico. «Un po’ è colpa della Rivoluzione culturale».
In che senso?
«Mao ha cancellato una generazione di professori tra i 45 e i 60 anni, quindi l’età media è decisamente più bassa che in Italia. Questo aiuta la meritocrazia».
Niente baroni insomma. Ma il livello della ricerca com’è?
«Nel mio campo la quantità è aumentata, ma il divario sul piano della qualità resta. Anche se i soldi sono tanti ci vuole tempo per formare una nuova generazione di cervelli, cinque anni, forse dieci».
Lei ha sperimentato ambienti accademici molto diversi: Italia, Germania, Giappone. Quale è la particolarità di quello cinese?
«Per me è ideale, perché molto focalizzato sulla ricerca. Insegno poco ma ho un gruppo di una ventina di studenti con cui portare avanti i miei progetti. Qui non si aspetta il dottorato per iniziare a fare ricerca, si inizia da subito».
Come sono gli studenti?
«Sono motivati, lavorano molto, la competizione è enorme, la pressione delle famiglie tremenda.
Smettono quando trovano un posto da professore. Gli europei e gli italiani però hanno più spirito critico, pensano di più. Qui a lezione non fanno domande, credono di non essere autorizzati. Con i miei studenti cerco di impostare un rapporto diverso».
Il regime controlla molto da vicino le università e indirizza la ricerca sui progetti chiave per la sua strategia di potenza. Si sente libero in Cina?
«Si sa che qui la politica è tutto. Ma io mi sento libero al 100% come lo sono stato ovunque. È vero che i miei studi non danno noia a nessuno, anzi possono essere utili al programma spaziale cinese che ha anche interessi militari. Sul satellite in cui sono coinvolto, però, il rilevatore chiave per i buchi neri è europeo, con un vettore cinese.
L’Agenzia spaziale europea non hai mai finanziato il progetto…».
Si dice che proprio nelle grandi università cinesi si nasconda una delle sacche di dissenso, per ora silenzioso, alla stretta autoritaria di Xi Jinping.
Ha questa impressione parlando con i colleghi?
«Non saprei, la politica non mi interessa. Forse se fossi un umanista sentirei una pressione diversa, ma io sono molto pratico.
Con Xi al potere l’ambiente accademico ha fatto passi avanti notevoli: quando sono arrivato la corruzione faceva paura, gli stipendi erano bassissimi perché i professori avevano altre fonti di entrata, borse di ricerca che sparivano. Ora le regole sono rigide, ma tutto funziona meglio. Credo la gente pensi: finché va così lasciamoli fare».
Quindi resterà in Cina? Di recente Kurt Wüthrich, 79 anni, è stato il primo premio Nobel (per la Chimica) a ricevere una residenza permanente.
«Mi ci è voluto un po’ per ambientarmi, ora vivo bene. Anche se a Shanghai preferisco il Sud: tropicale, verde, bellissimo.
Continuo a guardarmi attorno, ma restare è un’ipotesi che valuto. Fino al punto di cambiare passaporto però no: mi tengo quello italiano».

Corriere 17.5.18
Marlène e il sesso sotto i 15 anni Francia divisa sulla nuova legge
Ministra sotto accusa: il testo non prevede il reato di stupro in automatico
di Stefano Montefiori


PARIGI Quando è stata nominata segretaria di Stato alla Parità uomo-donna Marlène Schiappa era la più giovane componente del governo, e tra le meno conosciute. Nel giro di un anno la 35enne di origini corse (padre) e italiane (madre) è diventata una personalità politica di primo piano: è dipeso dall’attualità e dall’importanza del movimento #MeToo (declinato in Francia come #BalanceTonPorc), e dalla personalità di Schiappa, femminista fondatrice anni fa del blog Maman travaille («Mamma lavora»), sposata con due figlie, soprannominata «bulldozer» dal marito.
In questi giorni Marlène Schiappa è al centro dell’attenzione perché presenta all’Assemblea nazionale un progetto di legge contro le violenze sessuali, che prevede tra l’altro multe per chi molesta verbalmente per strada.
L’articolo che ha provocato il dibattito più acceso in aula è il numero 2, che punta a colmare una lacuna e a stabilire anche in Francia, come nel resto dell’Europa, un’«età del consenso»: è lecita una relazione sessuale tra un o una maggiorenne e una persona minore, se quest’ultima ha almeno 15 anni (in Italia l’età del consenso è 14 anni).
Se il minore non ha ancora 15 anni,il maggiorenne viene accusato di «violazione» ma perché si possa parlare di «violenza sessuale» il minore doveva trovarsi in stato di vulnerabilità. In sostanza, l’accusa di stupro non scatta automatica, come invece avrebbero voluto molte associazioni e non pochi deputati. Tra questi Fabien Di Filippo, parlamentare dei Républicains (destra), che nel suo intervento è arrivato a evocare la vita personale della segretaria di Stato: «Lei vuole porre la sua concezione libertaria dei rapporti sessuali, compresi quelli tra persone di maggiore e minore età, davanti alla protezione dei nostri bambini».
Marlène Schiappa ha preteso di riprendere la parola, ha denunciato di essere stata insultata, ha parlato di «volgare misoginia» e dell’«ignoranza profonda sulla libertà delle donne» dimostrata dal suo interlocutore, e ha ottenuto la sospensione della seduta.
Di Filippo alludeva forse ai romanzi erotici che Schiappa avrebbe scritto sotto pseudonimo (il suo entourage smentì mesi fa), o alla sua interpretazione dei «Monologhi della vagina», circostanze che in passato hanno già provocato commenti sessisti. Alla ripresa dei lavori l’articolo 2 è stato adottato, 81 voti contro 68.

Repubblica 17.5.18
Il personaggio. Lev Abramovic Dodin
“Ah, se Putin leggesse Vita e destino...”
Lev Dodin è il regista russo che porta sulla scena il romanzo capolavoro di Vasilij Grossman: un eterno atto d’accusa contro tutte le tirannie E lo fa a Londra, nel pieno della nuova guerra fredda (e di spie) con Mosca
intervista di Enrico Franceschini


LONDRA Non credo nella bontà universale, credo nei piccoli atti di bene individuale». È il messaggio di Vita e destino, l’epico romanzo di Vasilij Grossman sulla seconda guerra mondiale, rimasto proibito in Urss fino a dopo la morte del suo autore, adattato per il teatro da Lev Dodin, il più celebre regista russo, da trent’anni direttore del Malij, il “Piccolo” di San Pietroburgo, leggendario teatro di prosa, e portato in scena in questi giorni dalla sua compagnia all’Haymarket Theatre di Londra. Lo spettacolo, in russo con sottotitoli in inglese, dura tre ore e mezza. Alla fine, tripudio di applausi, attori in lacrime per la commozione, Dodin sul palcoscenico a ringraziare.
Una tournée finanziata da due miliardari russi residenti sul Tamigi, Roman Abramovich e Leonard Blavatnik, che sembra arrivare in Gran Bretagna nel momento sbagliato: dopo l’attacco con il gas nervino contro l’ex-spia russa Sergej Skripal, mentre il capo del controspionaggio britannico definisce Mosca “una forza maligna” e si parla di nuova guerra fredda.
Che effetto le fa, Lev Abramovic Dodin?
«Ovviamente la tournée è stata organizzata con largo anticipo: non potevamo immaginare che ci saremmo ritrovati in questa atmosfera. Da un lato, non un buon momento per portare un teatro russo nella capitale britannica. Dall’altro, il momento migliore, perché i rapporti culturali e artistici non devono interrompersi e possono servire a comprenderci meglio, al di là delle tensioni politiche».
Come è nata l’idea di un adattamento teatrale del romanzo di Grossman?
«Nel 1985 entrai in una libreria di Helsinki piena di libri di autori russi dissidenti, da noi censurati. Ne presi in mano uno grosso come un mattone e cominciai a leggere. Un’ora e mezzo dopo un commesso mi toccò una spalla e disse che dovevano chiudere. Ero scioccato. Era come leggere un Guerra e pace del ventesimo secolo. Grazie alla saggia decisione di non portarlo subito con me in Russia, evitai di essere arrestato. E vent’anni più tardi ho potuto metterlo in scena».
Lei si considera seguace di Stanislavskij, il grande regista russo del primo Novecento che diede il nome al metodo di recitazione, basato sull’approfondimento psicologico dei personaggi, e che ha ispirato l’Actors Studio di New York, da cui uscirono Brando e De Niro?
«Stanislavskij era un genio unico. Io mi ritengo suo discepolo. Vita e destino è un buon esempio. Le prove sono durate tre anni. Gli attori hanno letto 20 volte le 700 pagine del romanzo. Abbiamo visitato il gulag sovietico di Norilsk e il lager nazista di Auschwitz. E all’inizio non c’era una sceneggiatura.
Improvvisavamo, seguendo la trama del libro».
È un dramma sullo stalinismo, sul nazismo, sull’antisemitismo?
«Tutto questo e di più. È un dramma su ogni genere di totalitarismo. Fenomeno che oggi abbiamo di fronte, in diverse forme, in numerose nazioni. Perciò è un dramma ancora attuale».
Cosa spera di avere comunicato agli spettatori di Londra?
«Che se al mondo esiste un solo ghetto, viviamo tutti nel ghetto.
Se esiste un solo gulag, nessuno può sentirsi libero. Il problema non è che Stalin e Hitler erano dei criminali: è che l’Europa ha permesso loro di andare al potere. L’eterna verità della famosa frase di Hemingway: non chiederti per chi suona la campana. Suona per te».
C’è abbastanza libertà oggi in Russia?
«Non esiste il concetto di “abbastanza” libertà: la libertà c’è o non c’è. Viviamo in un Paese irriconoscibile rispetto al giorno in cui presi in mano Vita e destino in quella libreria di Helsinki. Sono stati fatti molti passi avanti. Bisogna continuare, possibilmente facendo due passi avanti e uno indietro. Non il contrario».
Putin ha visto questo spettacolo?
«Non mi risulta. Certo sarebbe interessante se lo vedesse».
Nel dicembre 1991, nell’intervista che mi diede al Cremlino, il giorno del crollo dell’Urss, Gorbaciov disse: “Noi russi non siamo né tartari né tedeschi”. È un dilemma secolare. Per lei la Russia appartiene all’Asia o all’Europa?
«Per me è europea. E i problemi della Russia odierna sono problemi dell’Europa intera.
D’altra parte anche la nostra rivoluzione del 1917 ha avuto un immenso impatto sull’Europa, contribuendo a cambiare la concezione di stato sociale, di diritti dei lavoratori. Solo che siamo stati noi a pagarne le conseguenze».
C’è differenza tra la gente di San Pietroburgo e quella di Mosca?
«Leningrado è più intellettuale.
Mosca ha più energia. Io amo entrambe».
L’ha chiamata Leningrado, non Pietroburgo.
«Le vecchie abitudini sono dure a morire. Ma posso fare io una domanda? Com’era Gorbaciov nel giorno delle dimissioni, nel suo ultimo giorno al Cremlino?».
Sembrava sereno, tranquillo, riconciliato con l’idea di avere svolto un ruolo storico ma di avere perso tutto. Lei lo vede ancora?
«Lo incontro talvolta alle cerimonie ufficiali. Lo invitano sempre. Ma nessuno gli si avvicina. Viene lasciato solo».
Per concludere, Lev Abramovic, perché avete portato a Londra “Vita e destino” insieme a “Lo zio Vanja” di Cechov?
«Grossman amava molto Cechov. Non a caso lo cita espressamente nel suo romanzo. In Vita e destino, un personaggio dice: “Non credo nella bontà universale, nel bene generato dal socialismo o dal cristianesimo. Credo nei piccoli atti di generosità, nel bene fatto dai singoli individui”. In fondo, una frase cechoviana».

Il Sole 17.5.18
Le presidenziali di domenica. Un Paese devastato da iperinflazione, mancanza dei beni di prima necessità e tensioni sociali
Venezuela, il voto della disperazione
di Roberto Da Rin


Maduro favorito nella sfida contro un pastore evangelico e un «Chicago Boy»
Un po’ “dictadura”, un po’di “dictablanda”. Cosa prevarrà? È questa la domanda retorica che, con sottile ironia caraibica, ci si pone a Caracas, capitale di un Venezuela irriconoscibile. Chi vincerà alle presidenziali del 20 maggio prossimo? Il comunista, l’ultraliberista o “l’italiano”?
Il Paese è sull’orlo del baratro economico anche se il suo presidente, Nicolas Maduro, è deciso a restare in sella e si ripresenta alle elezioni. Inflazione al 1200% annuo, forse al 1400%, nessuno lo può dire con esattezza. Il socialismo del XXI secolo di Hugo Chavez, nel 1999, si è dissolto dallo stato gassoso dell’entusiasmo a quello liquido dell’intangibilità. Dei beni di prima necessità, che mancano.
Tre ipotesi sul tappeto: la riconferma di Maduro, la svolta del candidato ultraliberista Henri Falcon o il pastore evangelico di origine italiana Javier Bertucci.
Il tracollo economico
L’unico fatto certo è che per comperare un (introvabile) rotolo di carta igienica bisogna riempire di bolivares un carrellino della spesa. Il cambio, variabile ogni minuto, non è più controllabile; la spirale svalutazione-inflazione, pare inarrestabile. I prezzi delle poche merci disponibili nei supermercati aumentano mentre si è in coda per acquistarle.
Quella del Venezuela è una depressione economica drammatica. Ci si andava a cercar fortuna, fino agli anni Cinquanta. E di fortuna ancora oggi, ve ne sarebbe tanta; il Paese possiede le maggiori riserve provate di greggio. “Terra di grazia” , venne battezzato così il Venezuela da Cristoforo Colombo. Anche se cinquecento anni dopo quella “grazia” si è trasformata, secondo alcuni sociologi, in “maledizione delle materie prime”. L’economia potrebbe essere rianimata solo da un incremento del prezzo del petrolio, unica e fondamentale risorsa del Paese.
Il religioso nei Panama Papers
In questo vuoto pneumatico di proposte, idee, coesione, si fa largo Javier Bertucci, 48 anni, un pastore evangelico di origini italiane. È fondatore della Maranatha Church, chiesa dello Stato di Carabobo. Sposato, padre di tre figli e di uno recentemente adottato, Bertucci parla chiaro: «Non mi presento come un messia, perché credo che ce ne sia già uno, Gesù Cristo. Dico solo che vivo tra i poveri, conosco le loro necessità. Invece i politici arrivano al voto dopo aver annunciato promesse che non mantengono mai e poi scompaiono». Bertucci si oppone all’aborto e ai matrimoni gay. Molto meno all’evasione fiscale: il suo nome compare nella lista dei Panama Papers, quella degli elusori che hanno trovato riparo nei paradisi fiscali, Isole Cayman, Seychelles e Isole Vergini.
Difficile prevedere il seguito elettorale che otterrà ma di certo gli evangelici continuano a guadagnare terreno in tutti i Paesi latinoamericani. Il Venezuela, dopo la scomparsa di Chavez, leader controverso ma molto carismatico, non fa eccezione. «A fronte di un governo che non offre garanzie necessarie per assicurare elezioni presidenziali trasparenti - ironizza Laureano Marquez, intellettuale e saggista venezuelano - parte dell’elettorato venezuelano potrebbe affidarsi a un emissario divino».
Maduro ha ereditato la leadership da Hugo Chavez, senza lo stesso carisma e riconoscimento regionale. L’opposizione, divisa e litigiosa, ha deciso di non presentarsi alle elezioni: l’idea è di abbandonare il campo in un silenzio rumoroso da cui emerga la deriva dirigista di Maduro. Ciò conferirebbe, secondo molti analisti latinoamericani, un paradossale vantaggio al governo.
L’unica certezza è che gli oppositori di spicco, Julio Borges, Antonio Ledezma, Leopoldo Lopez e Maria Corina Machado rimangono divisi su piattaforme e contenuti. L’ultimo atto di questa mancata coesione è stata l’espulsione di Henri Falcón, ex governatore dello stato di Lara, decisa dalla Mesa de la Unidad Democrática (Mud, il polo dell’opposizione). Anche se poi qualche oppositore ha fatto marcia indietro.
La decisione è stata presa dopo che Falcón ha annunciato di volersi candidare contro il presidente venezuelano Nicolás Maduro alle elezioni di domenica; un voto che però il Mud vuole boicottare perché ritiene una “farsa”. Falcón, comunque, ha difeso la propria candidatura sostenendo che partecipare al voto di maggio sia l’unico modo per sconfiggere l’attuale regime. Falcòn si vorrebbe avvalere di Francisco Rodriguez, in qualità di super consulente economico. Rodriguez è un economista della scuola di Chicago e accarezza il sogno di una vera e propria dollarizzazione del Venezuela. In altre parole, la sostituzione del bolivar, (moneta venezuelana) con il biglietto verde. Un’operazione simile, adottata molti anni fa dall’Ecuador, costerebbe una cifra compresa tra 10 e 12 miliardi di dollari. Una cifra ingente che gli Stati Uniti finanzierebbero volentieri, non per mecenatismo ma per il valore economico presente e futuro del petrolio venezuelano. Intanto è stato introdotto il “bolivar sovrano”, una nuova moneta alla quale sono stati tolti tre zeri, per rispondere alla scarsità di contanti prodotta dall’iperinflazione. Forse nella speranza di recuperare un po’ di credibilità: il Paese, visto dalla comunità finanziaria internazionale, «in-investibile». Ne parla così, con un neologismo finanziario, Xavier Hovasse, analista di Carmignac risk managers, intervistato dal Sole-24Ore.
La “cubanizzazione”
La situazione delle opposizioni in Venezuela è complicata da tempo: il Parlamento uscito dalle elezioni del 2015, e controllato dai partiti che si oppongono al governo, è stato svuotato di poteri e sostituito con una Assemblea filo-governativa voluta da Maduro.
Oggi i problemi paiono insormontabili, la scarsità di cibo, l’iperinflazione e un ipotetico default, provocato da eventuali inadempienze nelle scadenze di tranche di debito venezuelano, in programma nel 2018, rendono ricco di incognite il futuro del Paese. È questa la conclusione su cui sono approdati vari esperti intervenuti al convegno “Dove va l’America Latina nel 2018”, organizzato da Roberto Montoya, direttore di Mediatrends.
La “Cubanizzazione del Venezuela” è la forma espressiva più diffusa tra gli avversari del governo di Caracas, soprattutto ora che è stato distribuito il Carnet della Patria, una sorta di tessera annonaria che dà diritto a piccole quantità di cibo a prezzi calmierati. Caracas conta su alleati di peso internazionale, la Russia e la Cina. Non solo. Anche il prezzo del greggio (attualmente attorno ai 70 dollari al barile), previsto in aumento dagli analisti, potrebbe conferirgli un insperato vantaggio. A 80 dollari al barile, il Venezuela di Maduro, Paese al mondo con il maggior numero di riserve provate, potrebbe consentire al presidente di restare a Palacio Miraflores per un altro mandato. Con il plauso di Mosca e Pechino e l’inquietudine di Washington.
Il 2018, in America Latina, verrà comunque ricordato come un anno vissuto pericolosamente. Oltre al Venezuela, vi saranno elezioni presidenziali in altri Paesi importanti: Brasile, Colombia e Messico. Ne scaturirà una tendenza verso il rafforzamento della democrazia o un dérapage verso quel populismo che già contagia vari Paesi europei. I governi uscenti versano in condizioni difficili: corruzione, illegalità e narcotraffico sono le criticità comuni. Problemi politici e istituzionali. Proprio 20 anni fa, l’ex presidente del Venezuela, Hugo Chavez, nella cerimonia di insediamento, pronunciò solennemente la frase di rito, modificandola beffardamente: «Giuro su questa moribonda Costituzione». Su questo, aveva visto lungo.

Il Sole 17.10.18
Intervista aMoises Naim analista
«I cubani veri registi della politica venezuelana»
di R.D.R.


Una relazione politica simbiotica e un’elezione presidenziale importante da cui dipende il destino del popolo venezuelano. Impossibile negare il rischio di brogli: «Il conteggio dei voti sarà effettuato dal Cne, il Comitato nazionale elettorale, in mano al governo di Caracas». È questa l’opinione di Moises Naim, saggista venezuelano, 66 anni, che vive e lavora negli Stati Uniti. «Sì perché sono i cubani i veri registi della politica venezuelana».
Proviamo a tracciare uno scenario post elettorale.
Ne presento due. Il primo è quello di un prosieguo del mandato di Nicolas Maduro. La sua permanenza verrebbe garantita da Cuba, ma il pericolo è quello di un aumento esponenziale delle criticità: le repressioni militari e il controllo sociale del Paese. Un quadro che alimenta la conflittualità interna e di conseguenza la pressione dell’Esecutivo di Caracas sugli oppositori.
E il secondo?
L’appoggio dei cubani, che sono i veri registi della politica venezuelana, a un altro candidato, a condizione di perpetuare rapporti economici privilegiati tra Caracas e L’Avana. In particolare i cubani richiederebbero il controllo delle forze armate, i servizi segreti e le risorse petrolifere. Con la garanzia di importare l’energia necessaria al funzionamento dell’economia cubana che, senza il petrolio del Venezuela, collasserebbe. Va ricordato che la vera priorità, a L’Avana, è quella energetica.
Si è detto molto sul governo di Maduro e su alcune sue derive autoritarie, ma l'opposizione non ha saputo aggregarsi attorno a un candidato unico. Qual è la sua opinione?
I leader più capaci e autorevoli sono stati condannati e incarcerati. Degli errori sono stati commessi, vero. Ma il presidente ha sempre spaccato l’opposizione.
Oltre al pastore evangelico Bertucci si presenta il candidato Henri Falcon, distanziandosi dall’opposizione che avrebbe voluto astenersi.
Falcon rappresenta la speranza di Maduro, proprio perché darà legittimità al governo in carica. Comunque sia, sarà il Cne (Comitato nazionale elettorale) a determinare il risultato del voto. E il Cne è in mano al governo, quindi il pericolo che avvengano brogli o comune un’elezione non trasparente è elevatissimo.
Il ruolo dell'Esercito venezuelano potrebbe essere determinante per la tenuta o la caduta di Maduro?
Sì, certo. Il fatto è che, in Venezuela, ci sono 500 generali dell’Esercito che operano sotto il controllo dei cubani. A livello militare, strategico e politico il Venezuela è guidato de facto da Cuba.

Il Sole 17.5.18
I ministri degli Esteri di 12 Paesi chiedono l’alt
Il Gruppo di Lima: «Sospendete il voto»
di R.Es.


I ministri degli Esteri del Gruppo di Lima -che riunisce la stragrande maggioranza dei Paesi americani- hanno lanciato un «ultimo appello» perché il governo venezuelano sospenda le elezioni presidenziali previste per domenica prossima, 20 maggio.
«Non vi sono le garanzie per un processo elettorale libero, giusto, trasparente e democratico», hanno sottolineato i rappresentanti dei Paesi del gruppo, nato nella capitale peruviana nell’agosto scorso, e del quale fanno parte Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay e Perù. Luis Videgaray, capo della diplomazia messicana, ha ribadito che «i Paesi che fanno parte di questo gruppo condannano il regime autoritario che esiste attualmente in Venezuela, che ha violato l’istituzionalità democratica e lo Stato di diritto».
Immediata la risposta di Caracas, diretta all’interno e all’esterno del Paese. Le autorità elettorali del Venezuela hanno avvertito che coloro che promuovono l’astensione alle elezioni presidenziali saranno sanzionati come previsto dalla legge. La presidente del Consiglio nazionale elettorale (Cne), Tibisay Lucena, ha fatto questo annuncio dopo aver ribadito che a partire da giovedì 17, quando sarà chiuso il periodo di campagna elettorale, saranno proibite anche le manifestazioni e gli incontri pubblici. «È proibito dalla legge», ha sottolineato.
L’avvertimento è arrivato a proposito di alcune attività che il gruppo di opposizione Frente Amplio Venezuela Libre avrebbe programmato prima delle elezioni presidenziali, e anche per l’appello lanciato al popolo di riunirsi nelle chiese del Paese durante le elezioni di domenica. Lucena ha inoltre sottolineato che in Venezuela «esiste la libertà di culto», ma che tuttavia «le riunioni e le dimostrazioni nel processo elettorale sono proibite dalla legge». La presidente del Cne ha anche chiesto ai media e alle organizzazioni politiche di «mantenere l’equilibrio» nelle comunicazioni delle campagne elettorali.
Il consiglio elettorale ha riferito che oggi partirà il piano di osservazione internazionale delle elezioni. «Verranno organismi da tutto il mondo, deputati del Parlamento europeo, dei Parlamenti sudamericani, giornalisti, intellettuali, accademici, che sono stati non solo in Venezuela ma anche in altri Paesi, in qualità di osservatori», ha dichiarato Lucena.

Repubblica 17.5.18
Il sesso secondo Anna Frank una bambina nata scrittrice
di Paolo Di Paolo


Trovate pagine del “Diario” con le sue riflessioni sulla scoperta del corpo
Le due pagine del Diario di Anna Frank ritrovate nascoste da fogli di carta marrone e mai lette finora - non sono una rivelazione. Possono sembrarlo, certo: Anna appunta barzellette “sconce”, annota riflessioni su quelle che lei stessa rubrica come materie sessuali. Ironica, maliziosa: tira in ballo la presunta omosessualità di uno zio, ragiona intorno al suo ciclo mestruale, al desiderio erotico.
Anna Frank esprime - come hanno evidenziato dalla Fondazione di Amsterdam che porta il suo nome - «in modo disarmante» le sue curiosità di adolescente: l’uso di tecnologie avanzate e due anni di lavoro hanno portato, o piuttosto riportato, alla luce la natura complessa di un libro-monumento. Nessuno scandalo. Nessuna autentica novità. Perché la faccia più intima del Diario - messa in ombra da scelte poco filologiche del padre dell’autrice ed emersa ormai da tre decenni - è legata a un’esplorazione dell’adolescenza legittimamente impudica: «Chi si potrebbe immaginare qui dentro quel che può accadere nella testa di una ragazzina?» La versione emendata, su cui si è basata larga parte della ricezione soprattutto scolastica, ha spinto perfino troppo una lettura univoca del Diario come testimonianza sulla Shoah. Cosa che, nei fatti, non è. Non solo perché il Diario si interrompe prima dell’ingresso di Anna nel campo, ma tanto più perché la tredicenne speranzosa («Sii gentile e abbi coraggio», sprona sé stessa) non può nemmeno lontanamente immaginare cosa la attende. Anna usa il Diario come conforto nei mesi in cui è costretta a vivere nascosta, ma anche come grande occasione per mettere alla prova la sua passione per la scrittura. Nelle prime prove di penna, l’interlocutrice immaginaria, Kitty, ha identità diverse; viene moltiplicata in una piccola folla di personaggi, ciascuno col suo ruolo. Anna si proietta nel futuro come giornalista di fama, si immagina nei panni di scrittrice (e pensa al Diario anche come a un possibile romanzo). In questo senso, le pagine vitalissime che riesce a scrivere già nell’arco di una mezza estate - tra il giugno e il luglio del 1942, prima della “prigionia” - ci offrono l’opportunità di assistere al prodigio della nascita di una scrittrice. Quante volte abbiamo pensato in questi termini all’opera di Anna Frank?
Troppo poche. Eppure, non è un caso che il “fantasma” di Anna si manifesti anche come fantasma letterario in certe fantasie romanzesche di Roth o di Englander. È da giovanissima scrittrice, e non solo da “diarista”, che Anna adopera un’ironia sottile verso il mondo adulto, verso le preoccupazioni e le incoerenze dei grandi. È da scrittrice che descrive amici e compagni di scuola, infilzandoli quasi nei loro difetti, ed è da scrittrice che si auto-ritrae con divertita spietatezza. Con incredibile vividezza descrive gli impacchi quotidiani, i bagni nella tinozza, la costrizione al silenzio, gli slanci e le ansie; certe minuscole e gigantesche rivelazioni che il suo corpo in mutamento le presenta. Sa definire, o ci prova intensamente, l’amore e il dolore. L’attrazione e la lusinga di chi la ricambia. Scrive: «Capovolgo il cuore, con la parte brutta verso l’esterno e quella più buona verso l’interno, continuando a cercare un modo per riuscire a essere come vorrei tanto e come potrei se solo… non ci fossero altre persone al mondo». Scrive come una che, crescendo, avrebbe continuato a scrivere. Per questo, le due pagine riemerse non sono che una conferma. E quei fogli di carta marrone lasciano solo, più acuto, il rimpianto di non poter conoscere il futuro di una romanziera che oggi avrebbe quasi novant’anni. E che invece è rimasta per sempre una ragazzina di quindici.

La Stampa 17.5.18
Sfida fra uomini e robot
Entro il 2050 un terzo dei lavoratori americani sostituito da androidi: “Reagiamo alla catastrofe”
di Paolo Mastrolilli


Il nuovo robot «R1» dell’Istituto italiano di tecnologia che ha sede a Genova. 2. Il robot venditore «Gisela» mentre assembla un gioco davanti al pubblico in un chioschetto di Berlino. 3. La catena di montaggio di Tesla: quando l’azienda americana ha fallito i suoi obiettivi di produzione a causa di sbagli dei robot, il fondatore Elon Musk ha detto che «l’automazione eccessiva è stata un errore. Gli esseri umani sono sottovalutati». 4. Il robot «Pepper» mentre accoglie gli ospiti al Vodafone 5G Lab. 5. Il robot «Nao» batte il pugno contro quello di un uomo nello stand della IT fair CeBIT di Hannover

Un terzo dei lavoratori americani tra i 25 e 54 anni d’età sarà rimpiazzato dai robot entro il 2050. Ciò provocherà fortissime tensioni sociali, favorendo ancora di più l’ondata populista. Fin qui le previsioni allarmanti, che in parte già conoscevamo. Nello stesso tempo, però, esistono aziende che stanno già sfruttando al meglio questa tendenza storica, usando le macchine per i compiti più facili e ripetitivi, e assumendo esseri umani per quelli più complessi. La chiave è prepararli per i nuovi lavori, e assistere quelli che comunque non riusciranno a superare indenni la fase della transizione.
I pregi
Il tema sempre più impellente della robotica e dell’intelligenza artificiale è stato discusso lunedì alla Brookings Institution, durante un conferenza organizzata per presentare il nuovo libro del vice presidente Darrell West, intitolato appunto «The Future of Work».
Cominciamo dalle notizie brutte, o preoccupanti. West sostiene che «il 12% degli uomini in età da lavoro è già privo di occupazione», e un terzo del totale sarà rimpiazzato dai robot entro il 2050. Per le minoranze svantaggiate, come gli afro americani, il numero salirà al 50%: «Questa, cari amici, sarà una catastrofe». Ma opporsi all’automazione sarebbe come ostinarsi a viaggiare sulle carrozze tirate dai cavalli dopo l’invenzione delle auto. Andrew Puzder, ceo di Hardee, spiega così il motivo: «Gli strumenti digitali sono sempre gentili, non vanno mai in vacanza, non arrivano mai tardi, non scivolano e non si fanno male, non provocano discriminazioni sessuali, razziali o di età, vendono sempre più delle attese». Impedite alle aziende di usarli, e perderete tutto, perché falliranno.
I cambiamenti, secondo West, saranno molto più rapidi di quanto pensiamo: «Nei prossimi cinque anni la gente verrà genuinamente scioccata dal vedere quanto correrà veloce la rivoluzione tecnologica». Entrerà in tutti i settori, dalle auto a Wall Street, dalle manifatture alla sanità, inclusi gli interventi chirurgici. Bank of America stima che entro il 2020 il 47% dei lavori americani potrebbe essere già automatizzato.
Il disagio
«Nuovi posti - secondo West - verranno sicuramente creati. Il problema è che molte persone non avranno le capacità tecniche richieste per questi lavori. Perciò ci sarà un periodo di transizione con una considerevole turbolenza. La tecnologia creerà ansia economica, e la gente ansiosa è una grande ricetta per i leader populisti. Ne emergeranno a destra e a sinistra, andiamo verso un periodo di trumpismo pompato con gli steroidi. Penso che sarà una fase caotica».
Non tutto è perduto, però. Secondo West siamo davanti a un crocevia: «Un sentiero porta verso Utopia, con una società più inclusiva, più tempo libero e cultura; l’altro va verso Distopia, con alta disoccupazione, disuguaglianza e servizi sociali non garantiti». Presumendo che la prima strada sia quella preferita da tutti, il problema diventa capire come imboccarla.
Nell’immediato, la prima cosa da fare è gestire il disagio. Dovremo lavorare meno, e guadagnare meno, per poter lavorare tutti. In cambio saremo ripagati con più tempo libero, da dedicare alla famiglia e ai piaceri, possibilmente non troppo costosi. La riqualificazione professionale diventerà un’abitudine costante, mentre le alternative al classico impiego fisso, come volontariato e assistenza, si trasformeranno in attività normalmente riconosciute.
Dunque bisognerà scrivere un nuovo contratto sociale, che separi servizi e benefici dalle tradizionali forme di lavoro. Qualcuno non ce la farà comunque a superare indenne la transizione, e siccome converrà a tutti evitare che finisca in mezzo alla strada, sarà necessario trovare il modo di aiutarlo.
Lo studio
Per il futuro, invece, è indispensabile «cambiare i programmi delle scuole, in modo da preparare gli studenti ai lavori del Ventunesimo secolo». Il coding, ad esempio, dovrà diventare una capacità scontata come leggere e scrivere, mentre per la Gallup il 59% dei ceo pensa che l’abilità nel gestire e analizzare i dati sarà essenziale in ogni settore.
Alcune aziende si stanno già adeguando. Secondo il «Wall Street Journal», ad esempio, nella fabbrica di Spartanburg la Bmw ha introdotto l’automazione, raddoppiato la produzione, e aumentato i dipendenti da 4.200 a 10.000. Come? Assegnando alle macchine i compiti più facili e ripetitivi, e agli esseri umani quelli più creativi e di controllo della qualità. Quando Tesla ha fallito i suoi obiettivi di produzione a causa di errori dei robot, il fondatore Elon Musk ha detto che «l’automazione eccessiva è stata un errore. Gli esseri umani sono sottovalutati». Ecco, dalla ricerca di un equilibrio dipenderà il nostro futuro.

La Stampa 17.5.18
La macchina che impara a mentire
di Bruno Ruffilli


«Chiamo per fissare un taglio per una cliente», dice una voce. La conversazione va avanti come ci si aspetterebbe con un qualsiasi parrucchiere, ma la voce che parla è quella di un’intelligenza artificiale, che imita perfettamente un essere umano. Nel suono, nelle parole, perfino nelle interiezioni. Si chiama Duplex ed è stata presentata dal Ceo di Google Sundar Pichai nel corso di I/O, l’annuale conferenza degli sviluppatori di Mountain View.
La telefonata era vera, anche se registrata. La naturalezza della conversazione ha tratto in inganno l’interlocutrice, che ha fissato un appuntamento a nome di una certa Lisa, convinta di aver parlato con la sua assistente umana e non digitale: mai, infatti, l’intelligenza artificiale si è dichiarata come tale. La dimostrazione ha stupito, ma ha raccolto anche molte critiche. Ad esempio quella di Zeynep Tufekci, professoressa alla University of North Carolina e studiosa di tecnologia e società, che su Twitter l’ha definita «orripilante». «Comprendiamo e diamo importanza alla discussione sviluppatasi attorno a Duplex», ha dichiarato Google in una nota. «La trasparenza nella tecnologia è importante. (...) Faremo in modo che il sistema sia identificato in modo appropriato. Quello che abbiamo mostrato era una prima demo, e vogliamo aggiungere dei feedback mano a mano che la sviluppiamo».
Come sempre nella Silicon Valley, gli errori vengono corretti in corsa. Duplex migliorerà col tempo, ma intanto ha segnato una tappa importante nella storia dell’intelligenza artificiale, superando di fatto il test di Turing. Per lo scienziato britannico, una macchina è intelligente se è capace di convincere chi la sta utilizzando che ha di fronte una persona in carne e ossa e non una struttura di silicio e bit. Un test operativo, più che una definizione astratta. In Macchine calcolatrici e intelligenza, Turing aveva previsto che prima o poi la prova sarebbe stata superata, eppure il criterio con cui un calcolatore viene equiparato a un essere umano non lusinga l’uno né l’altro: l’intelligenza artificiale qui è la capacità di ingannare l’altro, di far credere di essere diversi da quello che si è. E nessuno vuole un’intelligenza artificiale capace di mentire meglio dell’uomo.